“Questo è lo spirito della nuova gestione Mikado: venite al cinema e portate a casa un problema” dice Franco Tatò presentando Agorà, pellicola di esordio del suo mandato da amministratore della casa di distribuzione. Bonariamente, si potrebbe far notare che per strappare il pubblico all’imperante rincorsa al cinema di intrattenimento si potevano trovare slogan più invitanti. In effetti, però, la cornice in cui questo biopic su Ipazia, misconosciuta e misdocumentata figura di filosofa martirizzata dalla chiesa cristiana del quinto secolo, viene distribuito nelle nostre sale, difficilmente avrebbe potuto suscitare più clamore e interrogativi.
Ignorato nelle immediate vicinanze del suo debutto a Cannes , il film attraversa i confini italiani a distanza di quasi un anno, sollevato in trionfo dalle lodi sperticate dell’intellighenzia anticlericale e liquidato con mugugni e accese contestazioni da quella di fazione opposta. La prova dello schermo rivela una pellicola dal chiaro intento divulgativo, inscatolata in una confezione imponente (una produzione da 50 milioni di dollari, più che notevole per un film europeo), le cui soluzioni visive si preoccupano più di sembrare belle o spettacolari che di aggiungere portata semantica ad una sceneggiatura didascalica fino ai limiti del manicheo.
Nello script si nascondono comunque gli apprezzabili dialoghi in cui Ipazia, anche grazie alla bella prova della Weisz, appare un personaggio smarrito, rinchiusa nella sua fragile enclave a cercare nei moti celesti e negli emicicli tolemaici l’armonia che l’uomo sembra aver perso del tutto ai primi albori di un medioevo oscurantista. Nella stessa ottica si colloca il personaggio fittizio del controverso schiavo Davo, innamorato dell’astrologia e dell’astrologa sua padrona, ammantatosi delle nere vesti di parabolano inquisitore perché travolto dalle pene d’amore e dal di un futile quanto comodo riscatto sociale.
La pietra scagliata da Amenabar fa decisamente meno onde nel dibattito sul linguaggio cinematografico che in quello sulle tensioni tra scienza e religione, di cui è stato scritto un brano interessante lo scorso 20 Aprile a Milano, in un affollato incontro organizzato da Mikado e dalla rivista Reset. Al tavolo del dibattito, il regista spagnolo e alcune delle più affilate e conosciute lingue del pantheon accademico italiano: Umberto Eco, Eva Cantarella, Mariateresa Fumagalli Beonio e Vito Mancuso, unanimemente concordi nel riportare la ridda di inesattezze storiche del film, sfumatamente discordi nel decidere quanta liceità si possa effettivamente accordare alle suddette licenze.
Tra le più evidenti: la dubbia collocazione cronologica del sacco della Biblioteca Alessandrina, a difesa della quale difficilmente la filosofa si sarebbe potuta collocare; Sinesio, vescovo di Cirene, fedele allievo di Ipazia e deceduto tre anni prima di lei, ma diventato nel film, in una operazione di notevole efficacia drammatica ma di dubbia legittimità, uno dei principali artefici del martirio della filosofa, sorta di ribaltamento prospettico di Giuda Iscariota; il martirio, avvenuto tramite un poco fotogenico scorticamento, viene rappresentato da Amenabar con una lapidazione, leggermente meno cruenta ma più connotata nella cronaca contemporanea. Amenabar, vagamente tramortito dall’arsenale accademico ma per nulla intimidito, ha impugnato esigenze narrative e l’alibi di aver girato un film che restituisce giustizia ad una figura affascinante e dimenticata. Obiezione accolta, ma solo in parte: un soggetto che solleva riflessioni e domande interessanti, un film che finisce per dare risposte troppo agevoli. Si va al cinema e si porta a casa il problema di sviscerare con lucidità la bagarre mediatica, per evitare di cadere in facili trappole retoriche, anche quando sostengono una sana curiosità sulle zone grigie della storia. Anche le occasioni mancate possono essere dei piccoli passi avanti.