Prima di tutto, chi è Lothar Lambert. Classe 1944, vispo e omosessuale, è uno dei numi tutelari dell’underground berlinese. L’unico a non aver ancora tirato le cuoia e a essere produttivo come non mai. Il riferimento chiave per apprezzare il suo cinema amatoriale e un po’ slabbrato è Andy Warhol. E scusate se è poco. Un Warhol corretto con un pizzico di John Waters, o meglio invaso da presenze femminili degne dei film di Waters. Nel documentario Alle meine Stehaufmädchen – von Frauen, die sich was trauen (‘tutte le mie trottoline – donne che osano senza vergogna’) ne ritroviamo undici. Undici donne e undici destini che hanno già incrociato altre volte la camera a spalla di Lambert. Attivo fino dal 1971, il regista viene ricordato soprattutto per Fräulein Berlin (1984), con la misteriosa Ulrike S., film urbano e bighellone a cui parteciparono anche Cassavetes, la Rowlands, Jim Jarmush e Norman Jewison nel ruolo di se stessi. In anni recenti “LL” ha progressivamente abbandonato la narrazione per la forma documentario, concentrandosi ad esempio su altre figure del sottobosco no-budget come Carl Andersen, Eva Edner ed Erwin Leder. Questa sua ultima fatica è più che mai improntata all’autoreferenzialità: Lambert visita alcune sue ex attrici e chiacchiera amabilmente con loro della vita, della morte e di altre scempiaggini. A salvare il documentario dal marchio “solo per appassionati”, tuttavia, è lo spirito sfrontato e sbarazzino che trasuda dalle immagini. Non solo perché alcune protagoniste ultrasessantenni, come la mitica Erika Rabau, bucano lo schermo senza bisogno di batter ciglio. La ragione principe è l’idea di cinema, o meglio di home movie da grande schermo, che Lambert porta avanti da sempre: riprese a braccio, montaggio scudisciante e sgraziato, dialoghi impertinenti – e ora, nell’epoca dei computer, pure qualche effettino digitale da software di editing gratuito. Il tutto rabberciato dalla faccia di bronzo di Lambert, un uomo che non conosce vergogna esattamente come le sue trottoline amorose. Diciamo subito che il documentario, con i suoi ottantadue minuti di durata, va via che è un piacere nonostante la palese assenza di un progetto filmico e di una struttura riconoscibile. Nell’arco di due anni, Lambert ha incontrato le undici attrici nei posti più disparati, e alla fine del percorso ha frullato tutto. Uno più ordinatino, come Rosa von Praunheim (Tote schwule, lebende Lesben, Berlinale 58), avrebbe sfornato un capitoletto per ogni attrice, Lothar invece passa senza sosta da un’intervista all’altra facendo rimbalzare un gesto, un argomento, un vezzo. Anche Alle meine Stehaufmädchen è suddiviso in capitoli, per carità, ma di natura tematica, o meglio goliardica. Esilarante il segmento intitolato Trionfo di una favorita (?), in cui Marion Antoniadis si cimenta come cantante in occasione di un improbabile talent show “over 40” organizzato in un sobborgo berlinese e non solo non vince neanche un bambolotto, ma proprio ci rimane di cacca. Toccante, al contrario, un capitolo sulla morte, il penultimo, in cui parla la truccatissima Anne-Marie Chatelier, malata di tumore, l’unica a non essere presente in sala alla fine della proiezione. Brioso, spudorato di quella spudoratezza che matura con l’età, il documentario di Lambert riesce a stupire anche solo quando zooma digitalmente su una foto a bassa qualità, quando monta due immagini che stridono come unghie sulla lavagna (altro che jump cut!) o quando inquadra un’attempata casalinga famosa per aver simulato un orgasmo trent’anni fa, in super 8. Meg Ryan, Hollywood, professionisti di questa fava: prendete nota.