Sam Mendes si conferma cineasta dotato di enorme mestiere e di una trasparente forza comunicativa, priva di connotazioni fortemente personali ma capace di servire alla perfezione le sceneggiature che tratta, spesso incentrate sulla sezione minuziosa di contesti famigliari. In questo caso la calligrafia tramutata in immagini è quella di Dave Eggers, figura centrale del romanzo e della nuova editoria americana, che con la moglie Vendela Vida firma la sua prima sceneggiatura originale (in precedenza aveva adattato Were the Wild Things Are per Spike Jonze). E la mano dello scrittore del Massachussets si sente, nella rappresentazione agrodolce e teneramente sboccata delle relazioni amorose o parentali: lutti, dissapori, pratiche sessuali e disagi economici vengono spogliati da ogni mitizzazione con un’ironia abrasiva quanto leggera, assumendo così la consistenza spigolosamente naturale della vita quotidiana. La macchina da presa di Mendes, il cui sguardo si era funzionalmente ammantato di morbosità e lirismo kitsch in American Beauty, rimane in questo caso complicemente distante, componendo quadretti di coppia in campi medi che raramente tengono fuori uno dei componenti della coppia protagonista. Difficile, inoltre, non notare come Away we go (rinominato goffamente American Life dalla solita, pelosa e ammiccante distribuzione italiana) cerchi di ricostruire i cocci che erano stati rotti in Revolutionary Road, dove si assisteva al cupo ed implacabile disfacimento della famiglia americana tradizionale, soffocata dalle ipocrisie e dalla spersonalizzazione che quello stesso modello imponeva. Sessant’anni dopo una scapestrata coppia di trentenni sorpresa da una gravidanza inattesa si avventura in un viaggio nel continente americano alla ricerca di un posto dove vivere e crescere il loro bambino. Burt e Verona, tappa dopo tappa, si trovano così faccia a faccia con il variegato campionario di famiglie più o meno disfunzionali generate da quel tramonto: nonni con la sindrome di peter pan, coppie sterili che si sentono in colpa per la loro insoddisfazione verso i figli adottivi, single incallite, divorzi incuranti della prole e fondamentaliste hippie maniache dell’allattamento (probabilmente l’episodio più sopra le righe e per questo meno riuscito). Un tour de force tra eccentricità spesso molto vicine all’egoismo, che non può che concludersi con la decisione per la coppia di tornare alle origini dimenticate, scelta tanto dolorosa quanto naturale e intrisa di speranza. In questo riconfigurarsi a tentoni dell’archetipo della coppia, non si può non registrare un cambiamento evidente: se il binomio Di Caprio/Winslet si risolveva nel classico contrasto tra autorità miope e sensibilità repressa, il personaggio di Krasinski, giullaresco e protettivo, si pone a scudo difensivo delle propositive fragilità della moglie Maya Rudolph, vero motore della coppia, affidandosi a lei nella gestione delle esigenze e delle decisioni da prendere. In definitiva, si delinea un peculiare equilibrio tra il ritorno a valori classici della famiglia e la loro messa in discussione. Operazione delicata, specie se trattata nel contesto di una commedia, in questo caso perfettamente portata a temine dal regista britannico, che ha dimostrato di saper maneggiare inaspettatamente bene tonalità brillanti per quanto tutt’altro che ridanciane o inconsistenti.