domenica, Novembre 24, 2024

Animal Kingdom di David Michôd: la recensione

Dopo un documentario e una serie di corti, tra cui il primo realizzato nel 2006 e dedicato in forma quasi prequel ad uno dei personaggi più marci di Animal Kingdom (Ezra White / Dan Wyllie ), l'australiano David Michôd debutta nel lungometraggio con un film che inquadra una Melbourne senza speranza, annichilita nella relazione corrotta tra famiglia e istituzioni

Dopo un documentario e una serie di corti, tra cui il primo realizzato nel 2006 e dedicato in forma quasi prequel ad uno dei personaggi più marci di Animal Kingdom (Ezra White / Dan Wyllie ), l’australiano David Michôd debutta nel lungometraggio con un film che inquadra una Melbourne senza speranza, annichilita nella relazione corrotta tra famiglia e istituzioni. Un clan dei Barker quello di Animal Kingdom che muove il dito nella stessa piaga ma senza quella demoniaca pazzia rivoluzionaria che animava la Bloody Mama Cormaniana. Il cinema degli anni ’70 è un immaginario disseccato nel film di Michôd, tanto che una parte della giovane critica Statunitense, forse a digiuno di alcune pellicole Australiane si è riferita principalmente a Rob Zombie e al suo Devil Rejects come ad un modello che re-inventa quel cinema sostituendo la trappola nostalgica con un sistema brulicante e decomposto di relazioni familistiche; tutto vero per quanto riguarda “la casa del diavolo”, ma Animal Kingdom, immerso com’è in un’ipnotica e intorpidita quotidianità, ha ben poco a che vedere con la malvagia ritualità dello sguardo di Zombie; Michôd prende in prestito i margini, i tagli, le inquadrature periferiche, i colori a certo cinema di A.J. Pakula (Klute, Parallax View) schiacciando i corpi sullo sfondo come nei targets di Bodganovich;  lo fa osservando la mutazione di quell’ossessione persecutoria che sorprendeva l’individuo isolato dalle reti invisibili del potere intrecciando i fili di un network che ha ormai infettato della stessa malattia paranoide il cuore delle relazioni famigliari e quindi riducendo la focale dei tele in una dimensione apparentemente più prossima all’intimità della famiglia, ma sorprendentemente, mantenendo la stessa, gelida distanza di un cecchino.

Josh (uno straordinario James Frecheville) è un insider inconsapevole, costretto ad assumere gradualmente un codice survivalista per certi versi non troppo lontano dalla mutazione antropologica di cui si fa veicolo Malik El Djebena, ma a questa resistenza “etica” dei corpi che rendono il cinema di Audiard anche un’esperienza fisica che conserva ancora le caratteristiche di un viaggio epico, Michôd oppone un’atemporalità tutta Australiana neutralizzando la forza dei climax in quel potere di assorbimento che assumono le numerose sospensioni del tempo presenti nel film, con un procedimento che si avvicina alla superficie iperrealista dei primi Peter Weir o della meteora Tony Williams;  Animal Kingdom, fin dal frame che ne contiene il titolo, sceglie un’impostazione pittorica, distante, dipingendo con colori desaturati e il sangue, senza sporcarsi le mani, ma spingendo quasi sempre il punto di vista verso coordinate ellittiche e marginali e affogando l’immagine nel torpore quotidiano dell’assetto urbano che ha neutralizzato l’outback, il bush, il paesaggio desertico che è quasi sempre nel cinema Australiano un segno di transito dove spazio e tempo si intersecano dando origine a complessi stati di passaggio identitari; la sola immagine che in Animal Kingdom si apre ad un residuo del deserto è in fondo quella che accoglie la morte di Craig (Sullivan Stapleton), proprio mentre cerca rifugio nell’unico spazio dove vediamo un volto aborigeno; tutto il resto è congelato in quest’immagine persistente di un’identità nazionale completamente marcita alla radice.

Le figure ritratte da Michôd hanno una strana residualità rituale, certamente opacizzata, perversa, osservata senza apparente partecipazione, ma presente; dal corpo tatuato di Craig, alla figura disgustosa dell’avvocato Ezra White fino, soprattutto, al matriarcato di Janine (Jacki Weaver) corpo che incarna, nei tratti, nel fisico, nell’abbigliamento, nella postura, la perversità e le contraddizioni dell’annientamento coloniale. L’Australia di Michôd non è magica e non condivide neanche quell’immagine di resistenza che nel cinema di Clara Law costruisce possenti figure femminili sorprese in spazi alieni e di transito; è al contrario popolata da mostri, da animali che allo scatto ferino hanno sostituito la presenza insidiosa di un contesto urbano che ha annientato tutte le differenze, è un regno del male che ci mostra con molta precisione il metodo di un giovane autore capace di lavorare con lo spazio e il tempo; esemplari in questo senso sono i momenti in cui Pope (Ben Mendelsohn) piange il fratello morto mentre guarda un vecchio videoclip degli anni ’80 con gli Australiani Air Supply che cantano All Out of Love, segno “pop” di forte connotazione identitaria; il dialogo tra i due avvocati e Josh, in uno spazio pubblico dalla consistenza iperreale e pittorica, una sorta di zona franca della cultura democratica deprivata del suo valore storico, con un’attenzione ai volti e ai colori che fa pensare ad una versione gelida e volutamente senza passione dei dialoghi tra arte e mercato che sorprendono i personaggi negli spazi quotidiani o museali dei film di Jon Jost e infine, il momento in cui Josh viene traghettato nel luogo affidatogli dal programma di protezione della polizia, con l’ufficiale in servizio seduto in macchina di fronte a lui, che per gioco gli punta contro una pistola scarica senza ottenere nessuna reazione da parte del ragazzo, come se tutta quella sopraffazione fosse un continuo e incessante presagio naturale, un essere già dentro la catastrofe che non può che essere filmato con quella dilatazione del tempo quotidiano che trasmuta impercettibilmente la normalità in un mondo popolato da zombie.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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