Lo scrive chiaramente Sandro Bernardi nella sua avventura del cinematografo edita da Marsilio, Lars Von Trier mette in scena “storie crudeli e simboliche su palcoscenici privi di scenografia che, non somigliando a niente, diventano simboli del mondo intero”. Ma è proprio la somiglianza con un mondo simbolico ingombrante e opaco, imprigionato da una referenzialità stanca e riconoscibile, che ci sembra al contrario l’unico segno capace di emergere dal cinema del regista Danese. Antichrist, film ancorato allo scintillio di un super slow motion scultoreo, è dedicato ad un cineasta che scolpiva il tempo, senza percorrere nessuna flagranza, neanche nella ricerca della durata. Pornografico, certamente, nell’ostentazione della superficie, non tanto nell’esposizione genitale che è vera e terribile quanto i cazzi usati negli spettacoli della Fura Dels Baus. Distante anni luce dall’orrore familiare di Visitor Q o dall’inferno organico e spietato di Nacho Cerdà, Von Trier in un modo molto simile ad Haneke è convinto di essere un cineasta della crudeltà ma è semplicemente un marketer molto abile, un illusionista senza più fede nella libertà delle immagini [possiamo dargli torto?] capace di creare mondi autoctoni dove è vietato perdersi con lo sguardo. Sopravvive un elemento performativo che nel suo cinema è comunque una piccola luce, da Bjork allo slapstick idiota fino al corpo di un notevole Willem Dafoe; sopravvive in uno Zoetropio digitale già sorpassato, un simulacro terribile che il cinema giapponese contemporaneo di cui si sarebbe nutrito in questo periodo di pausa elabora con più forza anche nelle produzioni apparentemente più dozzinali, assolutamente selvagge, possibili, coscienti, anti-specifiche. L’Anticristo di Von Trier non fa paura, parla una lingua conosciuta, arranca con una fastidiosa necrofilia cinefila sul bagliore delle images Altmaniane o cerca di emettere il grido senza fine della natura filmata da Skolimowsky; blindato nella sua università personale, scimmiotta il male del mondo intero.