Nel processo che J. Edgar Hoover subisce da parte delle autorità Federali, per come è raccontato da Clint Eastwood nel suo ultimo film da regista, la preoccupazione del Giudice non è semplicemente quella di verificare un suo possibile coinvolgimento nelle azioni del Bureau, quanto venire a capo di una complessa sovrimpressione semiotica che manifesta la Storia in quel crocevia tra verità e mito, con un probabile riferimento ai fumetti disegnati da Alex Raymond e scritti da Dashiell Hammett nel 1934 e che trasfiguravano le operazioni dei G-men.
Se nel film di Eastwood questa traccia rimane su un piano allusivo e contamina quasi tutte le immagini di J. Edgar a partire dall’utilizzo estremo della maschera attoriale, su questa stessa ambiguità Ben Affleck introduce “Argo” con una serie di tavole in movimento ispirate all’animazione americana dal tratto più “morbido”, quella della seconda metà dei settanta, inserendole in un flusso frequentativo che fa pensare a quella riduzione della Storia per “quadri” nel cinema di Steven Spielberg (per esempio, il racconto delle deportazioni in Amistad che concentra ottant’anni di storia del cinema). Una commistione tra mito e documento che consente ad Affleck di spostare continuamente il senso di quello che vediamo attraverso una densità testurale portentosa; la voce off ha quasi le qualità avvolgenti di una fiaba, e ci guida attraverso questo piccolo frammento animato partendo dalle ragioni che porteranno all’assalto dell’ambasciata Americana a Tehran il 4 Novembre del 1979.
Comincia cosi Argo, confondendo un’idea di cinema immaginato senza la necessità di un set, che è quella dell’animazione, con uno storytelling apparentemente didascalico in grado di infliggere una pugnalata nient’affatto consolante sulle ingerenze degli Stati Uniti nel sostegno al regime sanguinario dello Scià, origine di una relazione controversa con l’Iran che condurrà alla rivoluzione del ’79 e alla detenzione di 56 ostaggi americani, mentre sei di questi riusciranno a rifugiarsi nella casa di un ambasciatore Canadese.
Tony Mendez, ufficio dei servizi tecnici della C.I.A., dopo aver visto in televisione un frammento del Pianeta delle Scimmie di Franklin J. Schaffner proporrà una soluzione al dipartimento per recuperare i sei componenti nascosti dell’ambasciata, coinvolgendo John Chambers, makup artist & designer attivo sin dalla fine degli anni ’50 e interpretato nel film di Affleck da John Goodman e Lester Siegel, produttore probabilmente immaginario, interpretato da uno straordinario Alan Arkin e secondo alcune interviste rilasciate dallo stesso, ispirato alla figura di Jack Warner. L’idea di Mendez è quella di sviluppare una finta co-produzione Canadese di fantascienza da girarsi in Iran per sfruttare le naturali location desertiche, coinvolgendo cosi i sei ostaggi come parte della crew incaricata. Per Lester Siegel, la condizione per organizzare un finto film è quella di trasformarlo in un finto successo.
Con più di una suggestione che sembra riferirsi a quella stagione del cinema americano fine settanta, periodo in cui la Cannon Group venne acquisita da Menahem Golan e Yoran Globus, produttori specializzati in un infernale e scaltrissimo sistema di pre-vendita legato a film non ancora realizzati, Affleck realizza il suo lavoro più ricco e ambizioso, dopo il crepuscolare Gone Baby Gone e lo splendido The Town, due film per certi versi speculari nel mettere in relazione lo spazio familistico con quello collettivo.
Non è diverso Argo, dove la famiglia di Mendez, esattamente come in The Town, preme dai margini, rivelata da una serie di elementi “minimi” che influenzano impercettibilmente il corso della Storia (il figlio che guarda il film di Schaffner) quasi a voler lavorare su uno spazio ancora più ampio che dall’orizzonte maschile e senza madri di Gone Baby Gone si era già allargato nel film successivo alle dinamiche complesse che tengono in piedi Charlestown, fino alla disintegrazione dello spazio famigliare nella Storia nascosta di una Nazione.
Toglie il fiato l’abbraccio di Mendez alla moglie inquadrata di spalle che sembra accoglierlo da un fuori campo, un allentamento di quel sistema ad orologeria quasi Siegeliano che risucchia parte del film e che ci ci indica quanto Affleck si serva di un dispositivo anche produttivo per negarlo, per introdurre delle differenze ritmiche, per lavorare sui processi con una precisione filologica che non è mai Cinefila in senso nostalgico, ma casomai attenta a rilevare la Storia dalle tracce materiali e dai residui popolari di una stagione.
Ni tratta solo della fotografia “atmosferica” di Rodrigo Prieto, cosi precisa anche in termini coloristici, ma di più Storie (politica, narrativa, storico-cinematografica) che dialogano in uno spazio connettivo, la cui influenza reciproca perde progressivamente gli argini di riferimento.
Se è molto chiara in questo senso, quella “parentesi” grafica che apre e per certi versi chiude l’avventura Iraniana dei sei ambasciatori, dove il disegno (animato o semplicemente “illustrato”) rilancia il testo filmico come uno spazio di pura visione, nel mezzo c’è un cinema di segni, di film mai girati, di uno spazio mediale che già assorbe e disintegra quello del cinema, c’è la ricostruzione digitale dell’insegna Hollywoodiana ridotta ad un rudere, come i relitti terestri rinvenuti sul Pianeta delle scimmie quasi a sovrapporre l’agnizione del film di Schaffner con una altrettanto traumatica che mostra le fondamenta di un impero con un viaggio indietro nel tempo.
C’è inoltre tutta una tradizione di cinema “circense” (da William Castle in poi) a cui Affleck sembra alludere con questo sguardo impietoso verso il gadget, il merchandising, l’industria che costruisce l’ossessione Cinefila, tanto che chiude, con un assoluto colpo di genio, sui modellini di Star Wars, un pezzo di memoria collettiva che erode dall’interno il Cinema inteso come sogno, lo rovescia come un guanto e in un movimento di amore-odio lo fa interagire con la storia politica di un paese.
A un certo punto, i sei ambasciatori nascosti, vengono risucchiati in un frammento di cinema che immagina se stesso, come fossero corpi in una terra di nessuno, intrappolati nello spazio vuoto di un film che non esiste devono imparare una parte difficile da assimilare, altra forma generativa del testo che Affleck aggiunge a quella dell’animazione ad inizio film, storyboard per una regia politica che colloca lo Scià come attore principale della Storia di un paese.
Argo, il film che non esiste, riprende allora vita a partire dal patto di (in)verosimiglianza stabilito con i controlli dell’esercito all’areoporto, una mutua fiducia nel “segno”, mentre Argo, il film diretto da Affleck, si rivela sempre di più come un complesso spazio fantascientifico, nel modo in cui gli elementi del racconto e quelli di una Storia che affonda le sue radici in numerosi stati del tempo, cambiano senso al nostro punto di vista inseguendo quel movimento che consente a Mendez di viaggiare nel tempo e nello spazio.
Anche in questo senso tutta la retorica buonista che una critica più attenta alle parole che allo spazio tra le immagini ha creduto di dover rilevare, è in realtà qualcos’altro che ancora di più ha molto da condividere con il cinema di fantascienza, non ci si riferisce certamente al non luogo dell’utopia, per Affleck quello è un rottame come l’insegna losangelina di Hollywood, ma ad uno spazio eterotopo, quella spaccatura, anche di un sistema politico, che consente di trovare un frammento di libertà democratica, guardando attraverso le pieghe della Storia.
Del resto, Mendez stesso viene riassorbito, declassato, torna al suo regno fantasma, come i protagonisti del finto Argo, è corpo senza più cinema.