“Le belle donne sono invisibili” – George O’Hearn (Dennis Hopper) in Elegy, di Isabel Coixet
Beautiful è il titolo internazionale di Arumdabda, diretto dall’assistente di Kim Ki-duk al suo esordio nel lungometraggio. Niente di più facile, niente di meno soap. Juhn ha studiato in Europa, a Vienna per l’esattezza, ed è tornato in Corea del sud per lavorare sui set di Kim. Il quale Kim gli ha regalato l’idea per questo Arumdabda. La protagonista è Kim Eun-yeong (Cha Soo-yeon), che come suggerisce il titolo è bella. La sua è una bellezza patente: tutti si fermano a guardarla, le ragazzine la fotografano col cellulare e le chiedono se è una star della televisione, gli uomini sbavano e perdono ogni dignità. A detta dell’edizione giornaliera di «Variety», il film spiattella questo dogma con una buona dose di ironia, visto che secondo gli attuali canoni di bellezza coreani Cha Soo-yeon è semplicemente molto carina. Meglio. Il film inizialmente spiazza, come ogni affermazione dogmatica. Poi convince. Sono le reazioni alla mera presenza della signorina Kim a fare di lei la Bellezza in persona.
Arumdabda è ideato e prodotto da Kim Ki-duk, e potrebbe benissimo essere scambiato per un divertissement dell’autore di Time e di Bad Guy. Il giovane Juhn è tuttavia meno spietato del maestro e non nasconde la sua predilezione per gli aspetti più grotteschi della vicenda, specie quelli alimentari. Detto in altri termini: non si accanisce eccessivamente sulla sua protagonista, che pur vive una sequela di eventi traumatici che la conducono alla follia. Kim si considera condannata dal proprio aspetto fisico – la bellezza è destino!, le urla una grassona dedita al cibo porno – e decide di cambiarlo. Tra le tattiche da lei adottate c’è anche il tentativo, miseramente fallito, di sformarsi mangiando in maniera spropositata e malsana, o di darsi al primo venuto a mo’ di samaritana, per cancellare tramite la svalutazione del corpo questa sua grazia che vale come un marchio d’infamia. Invano. La sua bellezza magnetica non scompare – né potrà mai scomparire. Le donne la invidieranno a morte, gli uomini vorranno sempre possederla. A tutti i costi. Rape-pulsion.
La visione di Arumdabda riporta alla memoria, oltre a una buona fetta della filmografia di Kim, anche un film come Repulsion (1965). Kim Eun-yeong ha lo stesso fascino frigido e irritante della Catherine Deneuve dantan, e nel corso del film conoscerà sia ridde di mani che spaccherebbero i muri pur di abbrancarla – ma non è una visione! – sia le palate di letame di Bella di giorno, sotto forma di vomito da bulimia. Una scena in esterni, in particolare, sembra ricalcare il vagabondaggio allucinato di Carole Ledoux per le strade di Londra. Juhn ci consegna un film longilineo, senza un filo di grasso, che si conficca saldamente nella cornea e nel piloro. Il commento musicale, scarso, pianistico, con piccole fughe ambient, vale come un definitivo sberleffo inflitto a questa creatura del cielo, che nella prima inquadratura ci viene incontro a sfuoco fino a mostrare, nitide, le sue fattezze. Quando poi le luci della scena finale – trionfo di crudeltà suggerita – si spengono, e quelle della sala si accendono, lo spettatore non può che completare il film nella sua testa. Come in Rosemary’s Baby: il diavolo non è mostrato nel film, ma il terzo occhio lo vede.
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