30 anni dopo Alien, Sigourney Weaver emerge da un giaciglio elettronico in un pianeta lontano, caricando sulle spalle del proprio personaggio il suo expertise di veterana di mondi alieni. 25 anni dopo Terminator, si rianima il conflitto tra organico e inorganico, ma stavolta è l’umano a farsi profeta della ferraglia, indossando come una maschera la carne bluastra degli abitanti di Pandora, paladini della resistenza biologica. 10 anni dopo Matrix, un altro eletto apre gli occhi su un mondo da salvare, trafficando di nuovo (e in modo nuovo) con loculi amniotici e incestuosi innesti sinaptici. Durante la spropositata gestazione di Avatar, Cameron ha inoculato nella propria mastodontica creatura i riferimenti stratificati di decenni di fantascienza, lasciandoli apertamente germogliare per alzare l’asticella tecnologica e concettuale del cinema che racconta il futuro mentre parla del presente. Lo fa proiettando su uno schermo mai così sottile un’elaborata fantasia protesica alla quale gli spettatori stessi possono accedere solo grazie all’artificio corporeo di un paio di occhialini polarizzati. Entrando nell’universo di Avatar, infatti, ogni cosa si fa enfasi e prolungamento di corpi e pensieri: dalle strumentazioni esoscheletriche che espandono l’aggressività fisica dei militari, passando per gli alter ego alieni in cui i ricercatori umani insinuano il proprio io pensante per infiltrarsi tra la popolazione autoctona durante vividissime sedute di sogno, per finire con Pandora stesso, lussureggiante e fluorescente paradiso panteistico-cibernetico abitato dai Na’Vi, veri e propri Nativi Digitali in costante connessione sciamanica con lo spirito del proprio pianeta. Terminale di collegamento tra i tre fuochi sarà Jake Sully, marine inchiodato sulla protesi di una comunissima sedia a rotelle, anacronismo troppo ingenuo per non voler suggerire un approccio diverso alla tecnologia, più istintivo e bisognoso e per questo vicino a quello dei celesti giganti di Pandora. Mente sgombra da nozioni scientifiche, potenza fisica sprigionata con entusiasmo infantile dopo anni di cattività grazie al suo nuovo corpo, verrà accolto nella comunità indigena facendosi primo dei nuovi Mohicani, in una trama archetipica che richiama apertamente le epopee della conquista del Nuovo Mondo e che si unisce al coro ecologico high-tech per la salvaguardia del pianeta. I difetti del film risedono forse nella consistenza un po’ gommosa del popolo Na’Vi e nei dialoghi fin troppo schematici e prevedibili. Ma quest’ultimo appunto finisce per essere privo di efficacia , considerando che la dimensione del racconto puro si rivela di secondaria importanza nel cinema nuovo in cui Cameron ci vuole traghettare, debitore più delle esperienza videoludica che di quella classicamente cinematografica . Avatar è infatti una mappa prima che una storia: Cameron edifica un intero universo nei minimi particolari grafici e lo esplora cavalcando il pretesto di una trama, illustrandocene usi, costumi e soprattutto luoghi, dentro i quali il protagonista/spettatore si muove con candida curiosità sensoriale, sperimentando tutte le possibilità nascoste in ogni “schema di gioco” e ritornandovi connessione dopo connessione proprio come in uno dei diffusissimi MMPORG (Massive Multiplayer Online Role Game). Avatar, semplicemente, riesce a pieno nel proprio intento di ergersi ad opera simbolo dell’era della convergenza, piantando la bandiera del cinema nell’ancora inesplorato terreno della tecnologia mediale che verrà.