Sarah Polley ha realizzato Away from her tra i 27 e i 28 anni, vivendo attraverso una realtà che potremmo considerare distante dalla sua comprensione solo in base a quel pregiudizio che colloca il tempo in una prospettiva lineare. Vivendo attraverso, invece di attraversare, svela un accecante percorso fatto di avvitamenti a partire dall’idea di oblio. Il passato e il presente, leggeri e volatili come piume, perdono il loro limite reciproco in quella cancellazione degenerativa che mangia i contorni della memoria quando una persona è affetta dal morbo di Alzheimer. Eppure Sarah Polley, nel guidare l’energia e la bellezza senza tempo di Julie Christie dentro la perdita di se stessa, segue un movimento oscillatorio che drammaticamente rifiuta la degenerazione come escatologia progressiva; dimenticare è anche ricordare, cancellare è anche ricreare. Il breve racconto di Alice Munro da cui è tratto Away from Her muta in una complessa idea sulla percezione del tempo evitando di servirsi delle sconnessioni più superficiali e fisiche del dispositivo diegetico; gli oggetti, i colori e i movimenti sono tracce di presenze sovrimpresse, minacciate dal bianco e dalla luce di Luc Montpellier che divora i margini dell’immagine invertendo costantemente il confine gerarchico tra il frame e la sua cancellazione fuori dallo schermo. Sarah Polley immagina e percorre con numerosi travelling le porzioni di un set virtuale immerso nello studio saturo dei colori, dove gli oggetti e i corpi sono annichiliti in una dimensione spaziale da contorni allo stesso tempo netti e labili, quasi come se il cromatismo del melò Sirkiano fosse reinventato con un approccio sottrattivo a partire da quel senso di distanza iperrealista da cui era intimamente minato; cancro fecondo dell’immagine che si avvicina sempre di più alla sovresposizione con tutte le forme della dimenticanza osservate da un occhio al limite con l’ipovisione. La produzione esecutiva di Atom Egoyan è in un certo senso (im)palpabile, l’architettura dei film del regista Armeno Canadese, dove il tempo collide e struscia letteralmente con i corpi e le cose, è presente nell’esordio di Sarah Polley con una forza molto più intima e se si vuole, rigorosa. I layers sono incorporati, la stessa architettura di un tempo narrativo fatto di grinze non rischia di autosvelarsi come tale, ma è rintracciabile nei movimenti interni e esterni all’inquadratura, nel peso degli oggetti, in quegli ordinary interiors che ricordano il simulacro di stanza ricreato virtualmente nell’agghiacciante finale di Artificial Intelligence. Away from her è un film sulla memoria che non si serve della prepotenza del montaggio, preferendo appendersi e dondolarsi tra le tracce lasciate dalle immagini, in una costante reinvenzione della loro posizione e persistenza, è lo splendido esordio dietro la macchina da presa di un’attrice che meriterebbe un’approfondita analisi fenomenologica!
Away from her – lontano da lei: di Sarah Polley
Vivendo attraverso, invece di attraversare, Away from Her svela un accecante percorso fatto di avvitamenti a partire dall’idea di oblio. Finalmente nelle sale Italiane lo splendido esordio alla regia di Sarah Polley.