venerdì, Novembre 22, 2024

Ballata dell’odio e dell’amore di Alex de La Iglesia

Viene distribuito in italia in questi giorni, con due anni di ritardo per il fallimento di Mikado, quello che è il penultimo film di Alex De La Iglesia, Ballata dell’odio e dell’amore, vincitore del Leone d’Argento per la regia e dell’Osella per la sceneggiatura a Venezia 2010, seguito un anno dopo da La chispa de la vida, presentato a Berlino 62 e recensito da questa parte da Simone Buttazzi. Dopo gli eccessi grotteschi di El Dia de La Bestia, Alex De La Iglesia continua a svolazzare ben al di sopra delle righe, presentando con Ballata dell’odio e dell’amore la sua opera visivamente più potente e contemporaneamente più ambiziosa nel contenuto trattato. Negli anni del franchismo, il grasso e malinconico Javier, figlio di un clown morto durante la guerra civile, comincia a lavorare in un circo nel ruolo di spalla della principale attrazione del tendone, il pagliaccio Sergio, tanto amato dai bambini quanto violento nella vita privata. I due si contenderanno la provocante beltà della trapezista Natalia, spezzata in due tra l’amore affettuoso per il timido pagliaccio triste e quello totalizzante e masochistico verso Sergio . L’ossessione carnale per la donna li porterà ad una parossistica follia, scatenando nei due un processo di brutalizzazione destinato a sfociare in una sanguinosa resa dei conti in costume in cima all’imponente croce della Valle de Caduti dell’Escorial. Il genere storico-fantastico sdoganato da Del Toro e dall’ultimo Tarantino, trova in questo confuso pastiche pseudo-postmoderno la sua dimensione più pretestuosa e delirante, apprezzabile per la sua prorompente vitalità visiva che finisce però per imbellettare con ceroni burlesque e pulpismi gotici una sostanziale pochezza di contenuti. In un’affascinante fotografia cupa e sferzata da fari taglienti e fiotti di sangue, la sceneggiatura procede per svolte vacuamente demenziali, utili per giustificare gag a grana grossa ed esplosioni di violenza difficilmente inquadrabili in una coerente presa di posizione nei confronti del contesto politico. La brutalità rabbiosa e autoinflittiva dei due clown sfigurati vorrebbe essere sublimazione degli orrori del Franchismo, ma fa da piatto principale ad una vicenda sconclusionata e completamente orfana delle sapidità cinefile di Inglorious Basterds o della fascinazione per l’evasione fantastica de Il Labirinto del Fauno. L’efficacia caustica del film si esaurisce nell’incalzante collage dei titoli di testa, dove le immagini e le effigi dei gerarchi si mischiano senza soluzione di continuità con le foto di scena dei mostri cinematografici. Mordere la mano al Generalissimo è una ripicca splatter invitante e a tratti divertente, ma difficilmente sufficiente a fare qualcosa di più di un discreto film di genere.

Alfonso Mastrantonio
Alfonso Mastrantonio
Alfonso Mastrantonio, prodotto dell'annata '85, scrive di cinema sul web dai tempi dei modem 56k. Nella vita si è messo in testa di fare cose che gli piacciano, quindi si è laureato in Linguaggi dei Media, specializzato in Cinema e crede ancora di poterci tirare fuori un lavoro. Vive a Milano, si occupa di nuovi media e, finchè lo fanno entrare, frequenta selezioni e giurie di festival cinematografici.

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