In tempi di warholismo stracotto, con la fama – per quanto effimera – assurta a bene di consumo primario e il diritto alla privacy volontariamente immolato sull’altare dei social network, l’unica contraerea che ci rimane è l’anonimato. E per evitare che anche l’arte diventi un’arma di distrazione di massa, l’unico eroe plausibile ai giorni nostri non ha volto, e lascia che a parlare siano le sue azioni, i suoi sberleffi, le sue sacrosante pasquinate. Questo eroe si fa chiamare Banksy e Sabina De Gregori ha avuto la brillante idea di imbastire la prima monografia italiana sul suo conto. Impresa non facile, visto che del Banksy-uomo si sa poco (con certezza, nulla) e che l’unica galleria che espone regolarmente le sue opere si chiama immaginario collettivo. Banksy è diventato il simbolo della street art degli ultimi vent’anni, e
come ogni artista influente che si rispetti, la sua produzione ha incoraggiato il conio di una nuova etichetta: guerrilla art. Cioè a dire la nuova frontiera del graffitismo che predilige il messaggio alla firma e le silhouette essenziali (ottenute a mezzo stencil) al tripudio cromatico delle bombolette. Banksy è l’ultimo dei situazionisti, in quanto la potenza del suo gesto sta nel deturnare – i detrattori direbbero deturpare – immagini note trasformandole in icone destabilizzanti. Due bobbies che si baciano appassionatamente, i protagonisti di Pulp Fiction che brandiscono banane, un black bloc sul punto di lanciare un mazzo di fiori. E via graffiando, a colpi di immagini immediatamente riconoscibili che non necessitano della “legenda” tipica del graffitismo. Banksy non parla “ai suoi”. Parla a te.
Il secondo aspetto fondamentale dell’arte di Banksy è lo sfruttamento spericolato di superfici con divieto di affissione (di solito, pareti di edifici), il che la qualifica subito come illegale, perseguibile, esecrabile, destinata alla rimozione. È un’arte per sua natura precaria e “a tempo”, che le amministrazioni locali danno ordine di cancellare con una mano di bianco. Anche se si tratta di opere riconosciute e valutate, sul mercato dell’arte, con
cifre a cinque-sei zeri. Banksy agisce sul territorio consapevole della “caducità” dei propri interventi, manco fossero installazioni di land art, castelli di sabbia o sculture di ghiaccio. Una consapevolezza che ha funto da volano per l’immagine di un artista che ha saputo fare della precarietà un punto di forza e dell’“evento” una logica permanente, opportunamente rigenerata. La sua prima personale importante, Barely Legal, ebbe una durata di tre giorni, si svolse in un capannone della periferia losangelina e fece, oltre che sensazione, epoca.
Il libro di De Gregori, alto 26 cm e a colori (con moltissime illustrazioni), manipola sapientemente il cubo di Rubik del “caso Banksy” e ne mette in evidenza le moltissime sfaccettature. Si comincia in quel di Bristol, culla della street art britannica e del trip-hop (anche 3D dei Massive Attack ha un passato di bombolettaro) e si cerca di ricostruire, se non la vita, almeno la carriera artistica di Banksy, a partire dall’adozione della sua tecnica principe – lo stencil – e del suo avatar più abusato, Blek le rat. Al di là del facile anagramma rat / art, il topo di fogna è la figura ricorrente dell’universo banksiano, e dà anche il benvenuto agli internauti che incappano nel suo sito “criptato”, Pest Control. De Gregori propone due percorsi londinesi sulle tracce di Banksy: uno reale, che di fatto registra le scaramucce ancora visibili tra l’artista e il team rivale Robbo, e uno fantasma, che mette a confronto alcuni storici interventi metropolitani di Banksy con ciò che ne resta, ovvero nulla – o quasi. Spettri slavati di ratti e altri agenti provocatori. Nel volume troviamo una rassegna delle mostre più importanti cui ha preso parte, la descrizione delle sue azioni di disturbo in vari musei americani e britannici, la sua scampagnata a Disneyland sotto il segno di Guantanamo, una panoramica dei graffiti realizzati sulla barriera di separazione israeliana e anche un
curioso, azzeccato parallelismo tra il troublemaker di Bristol e il misterioso Pasquino della Roma papalina. Non manca un accenno all’imperdibile mockumentary Exit Through the Gift Shop (recensito su indie-eye), requiem beffardo per un movimento artistico così cool da adornare la copertina di un best of di Madonna nonché primo baloccamento di Banksy col mondo dell’immagine in movimento, cui è seguita la realizzazione, nell’ottobre del 2010, di un controverso “couch gag” per i Simpson, ovviamente censurato.
Banksy – il terrorista dell’arte è la fotografia di un bersaglio mobile, mossa e a bassa risoluzione come si addice a un artista che, quando va bene, si lascia filmare soltanto dalle telecamere a circuito chiuso. Uomo invisibile nella società della sovraesposizione, finora Banksy è riuscito a lanciare un tranciante J’accuse ogni volta che si è espresso, e non è un caso che Sabina de Gregori abbia deciso di concludere il libro con un una lunga invettiva firmata Zola.