Sergio Atzeni è stata una delle voci più importanti della letteratura sarda. Nei suoi libri risuona viva l’identità dell’isola, tra la prosperosa verginità del passato e la realtà variopinta, caotica del presente. La storia per Atzeni, figlio della grande famiglia di intellettuali organici sardi, è uno strumento di lettura a ritroso, capace cioè di dischiudere le incognite della sedimentazione temporale. Il film Bellas mariposas, basato sull’omonimo libro di Atzeni, è proprio questo: una testimonianza dall’incontrollabile carica espressiva; una diapositiva stroboscopica del quotidiano radicata, o meglio cementificata, nei primordi della cultura cagliaritana. Il regista Salvatore Mereu non è nuovo a questo tipo di approccio: il suo precedente Sonetàula, romanzo di formazione per immagini nella Sardegna del 1938, metteva in luce tutta l’attenzione per una terra che si confonde nel mito della civiltà. Queste considerazioni fungono da sfondo per Bellas mariposas, ma non devono ingannare. Sono sì necessarie a prendere atto di un contesto in cui tutto (lingua, orari, abitudini) diventa motivo di autarchia, ma non sono vincolate ad una forma rigida, pedante, didascalica. Bellas mariposas stupisce anzi per una struttura che è libera al punto da sembrare improvvisata, squadernata. Ambientato in uno dei quartieri popolari a ridosso di Cagliari, il film ha un unico, continuo catalizzatore nella figura di Cate, un’adolescente trasognata che vive in una famiglia di non-si-capisce-bene-quanti fratelli e due genitori truffaldini che ricevono pensioni a causa di handicap a dir poco molièriani. Cate è il fulcro della vicenda, guidando lo spettatore attraverso quest’universo intricato e delirante. Non costituisce però l’unico asse portante del film, che accoglie come narratori occasionali tutti coloro che gravitano intorno a Cate. In questo modo ogni domanda occasionale o litigio tra la protagonista e i suoi familiari diventa occasione per una divagazione strutturale: un cinema, insomma, all’interno del quale l’interruzione dei dialoghi e le pause sono elementi metalinguistici. I fatti narrati in Bellas mariposas coprono la antonomastica durata delle 24 ore e si dipanano tra le increspature di un’ambientazione viscerale; l’argomento non può che essere un giorno nella vita di Cate, una sorta di piccola Amélie Poulain. Lo sguardo di Mereu illumina una vicenda che si impone grazie all’affabile godibilità della trama, pur ritraendo scampoli di vita drammaticamente bassa. L’assenza di filtri è forse la principale prerogativa della regia, che si sviluppa sconnessa e irregolare, ma mai sottotono. Nell’ambivalenza dello stile di Mereu si intravede ora il disincantato iperrealismo alla Scola, ora il misticismo paesano alla Fellini, mentre i richiami più attuali sono i racconti familiari di Virzì. I paragoni sono utili per definire le caratteristiche di Bellas mariposas, ma sono, come sempre, da soppesare con cautela: il rischio è che non rendano giustizia a un film autentico e molto personale. C’è una coincidenza interessante con È stato il figlio di Daniele Ciprì in fondo, nel film di Mereu; entrambi tratti da romanzi, entrambi profondamente legati alle idiosincrasie della terra, questi due film sono ovviamente diversissimi per impostazione. Mentre Ciprì avvicina il più possibile le sue visioni grottesche al reale, Mereu scompone il vero fino a caricaturarlo.