Boris Khlebnikov è virtualmente sconosciuto dal nostro pubblico, ma è tra quegli autori che, insieme per esempio ad Andrei Zvyagintsev e Alexei Popogrebsky ha consentito al cinema russo del secondo millennio di farsi conoscere a livello internazionale anche grazie ai palinsesti festivalieri. In particolare l’ultimo film del regista russo cosi come quelli di Alexei Popogrebsky hanno in comune la produzione di Roman Borisevich e della sua casa di produzione nota come Koktebel, specializzata per lo più in produzioni indipendenti. A Long and Happy Life è interpretato da Alexander Yatsenko, già con Khlebnikov in Free Floating, nella parte di Sascha, responsabile di una fattoria gestita collettivamente e situata nella penisola di Kola. Oltre alle difficoltà finanziarie dell’intero progetto, Sascha dovrà affrontare le nuove decisioni del governo, che ha pensato di destinare quelle terre ad altri scopi per un mero calcolo di profitto. Mentre i funzionari cercano di strappare una firma a Sascha, questi rifiuta e intraprende una strada solitaria e ancora più collettivista, cercando di convincere tutti i lavoratori coinvolti a stringere i denti e a gestire in totale autonomia i processi produttivi della fattoria. Il film è girato interamente nel Murmansk, regione situata nella parte nord-occidentale della Russia, e in particolare scegliendo le location in un piccolo villaggio chiamato Umba circondato da montagne e da un fiume, lo stesso che vediamo attraverso la finestra del piccolo rifugio dove Sascha dorme con la fidanzata, e che Khlebnikov filma con quell’ambiguità arcaica che sta a metà tra la minaccia e la sicurezza. Lo stesso Khlebnikov, in una serie di interviste, dice di essersi ispirato ad “High Noon” di Fred Zinnemann soprattutto nella relazione tra personaggi e ambiente naturale, evidenziata in modo diretto, basico, fino ad esplodere al crescendo di un duello. Filmato con occhio documentaristico soprattutto nelle sequenze che seguono attentamente tutta la ritualità, anche tecnica, del lavoro, il film di Khlebnikov dimostra una notevole forza politica nel mostrare lo scollamento feroce tra natura e interesse economico, tra la terra e il progressivo distacco percettivo e attitudinale dell’uomo. Non è solo il post-comunismo della Russia contemporanea trasformatosi in una pantomima del nuovo capitalismo, ma anche l’utopia socialista che si sgretola nel momento in cui ai lavoratori della fattoria viene chiesto di resistere rinunciando ad un interesse immediato; la relazione solipsistica con la propria percezione del mondo diventa più importante di un risultato collettivo, e Sascha rimarrà solo. La camera a mano di Pavel Kostomarov segue ossessivamente i personaggi con lo sguardo vicino a quel cinema che cerca i osservare la relazione tra corpi e spazio in una dialettica irrisolta, sempre decentrata, sempre in movimento e alla ricerca di un punto di vista inedito, quel cinema che potrebbe includere l’ultimo cinema Rumeno, quello di Benedek Fliegauf fino ai Dardenne e ai film di Ursula Meier. almeno in quella relazione spaziale dell’immagine tra corpo e ambiente, deserto post industriale e individui. Tutta la sequenza del “duello” finale di A long and happy life, è un piccolo sorprendente western concentrato in pochi minuti, dove gli oggetti della fattoria, i box per le galline che Sascha ha montato negli ultimi mesi, la morfologia di una terra che racchiude la memoria di un mondo che di li a poco rischierà i scomparire, diventano l’arena entro cui due visioni opposte della realtà e dell’economia si sfidano fino alla morte.