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Berlinale 2013 – Concorso – Camille Claudel 1915 di Bruno Dumont (Francia, 2013)

Quello di Bruno Dumont è sempre stato un cinema “fisiologico”, fatto di corpi messi contro l’indifferenza del paesaggio così da mostrarne gli aspetti più oscenamente indedicibili; sorprende, da parte della critica, il costante riferimento a Robert Bresson; il regista Franco/Belga si serve raramente di uno spazio centrifugo, e l’immagine non subisce quasi mai uno scollamento rispetto al suono.

Il rischio che Dumont sceglie di correre è quello di interrogare i volti e i corpi con insistente ossessività lasciandoli liberi in uno spazio non modellabile, pietra non erosa ma che scava lentamente un interno invisibile. Un cinema dato irrimediabilmente per chiuso dai suoi detrattori, asfittico, gelido, ma che in realtà genera una superficie bianca così ampia da consentire a chi guarda la libertà di riempire; un distacco apparente da corpi e personaggi che si pone in antitesi rispetto all'”amore” distorto e sadistico per le  cavie Hanekiane da parte del suo autore.

Invece di Bresson, viene in mente un’altra anti-metafisica, quella del Possession di Zulawski e in particolare di quel confronto tra immagini che è la mimica deformante e spastica di Isabelle Adjani mentre geme  e cerca di strappare un segno alla croce di cristo fissata sulla parete di fronte a lei, in una prova attoriale di proporzioni sciamaniche. Non credo sia un caso, anche in relazione a questo accostamento arbitrario, che la mistica atea di Dumont si muova entro un costante e rigoroso disarmo dell’intelligenza operato attraverso il contrasto tra un’immagine stolida scagliata come pietra ancora da lavorare e una possessione in atto, quella di Hadewijch, Hors Satan oppure Katerina Golubeva in Twentynine Palms .

L’idea per Camille Claudel 1915 viene a Dumont in seguito ad una sollecitazione di Juliette Binoche; girare tre giorni nella vita della scultrice legata a Rodin, riferendosi al periodo del suo internamento in manicomio e dilatando per tutta la durata del film quel senso di attesa intollerabile che consumava l’anima di Camille nel desiderio di una visita del fratello Paul. Dumont trova un accordo con un istituto per malati mentali cosi da filmare gli stessi ospiti insieme alla Binoche. Dialoghi ridotti a zero, e nessuna istruzione per i “folli”, se non quella di gridare ed essere se stessi davanti ad una macchina da presa osservata, dal loro punto di vista, come oggetto tra oggetti.

C’è in Camille Claudel 1915 un lavoro di scavo incessante sul volto tra il riso e il pianto della Binoche e la sua relazione diretta con la follia, sguardo che osserva un paesaggio più astratto che in altri film di Dumont, costituito da pochissimi elementi deprivati di qualsiasi valore simbolico: un albero spoglio, le rocce di una montagna, il vento, rivelazioni della natura che hanno una relazione frontale con l’immagine; e se anche collocati in posizione ellittica spezzano il dinamismo del fuori campo che rende l’immagine Bressoniana parte di un cinema che preme dall’invisibile. Ora più che mai in Dumont il fuori campo è il nostro stesso tentativo di porci di fronte all’immagine della follia in tutta la sua durezza; penetrare l’impenetrabile come in quel sorprendente azzeramento della postura attoriale che è il lavoro della Binoche alla ricerca di un’essenza; Camille può adesso contagiarci.

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