Insomma, detto fuori dai denti, Gold, del professore universitario e regista Thomas Arslan (Dealer, 1999; Geschwister, 2006) è un film farsa che si ispira maldestramente alle atmosfere dello stupendo Meek’s Cutoff (film di Kelly Reichardt, 2010, recensito da questa parte su indie-eye.it), mischiandole a un mood alla Dead Man (Jim Jarmusch, 1995). Il tutto assommando due ‘punti morti’ del genere Western: protagonista vincente femminile e focus su un gruppo di immigrati tedeschi, rattoppandoli insieme tramite una sceneggiatura superficiale che, a tratti, tra un luogo comune e l’altro, scade a volte nel grottesco, altre volte nel ridicolo.
Non è solo la sceneggiatura ad essere problematica. La fotografia di Patrick Orth è smorta, le inquadrature sono di una banalità disarmante, quasi televisiva; il montaggio della pluripremiata Bettina Böhler è tanto ben educato da risultare, a tratti, noioso; la musica di Dylan Carlson si ispira ‘molto’ a quella scritta da Neil Young per Dead Man. La regia di Thomas Arslan è inesistente e si appoggia all’estro di attori vistosamente impreparati e non in grado di mettere da parte le maschere già indossate in altri film (sicuramente non western). Nina Hoss non si sottrae a questa critica; fa sorridere di tristezza il vederla alle prese con un moribondo, dopo averla ammirata un anno prima nel ruolo di Barbara, una coraggiosa dottoressa, nell’omonimo film di Christian Petzold.
Gold, nonostante tutto, è un lavoro da cui si può trarre un insegnamento: per fare un grande film non bastano teorie ripescate ad hoc da un qualche manuale di cultural studies e organizzate in modo da voler riempire vuoti categoriali lasciati aperti dalle convenzioni che definiscono un genere. Per fare un grande film ci vuole almeno una visione del mondo, e questo è proprio ciò che nel film di Thomas Arslan manca.