Nei continui risvegli di Haewon che riavvolgono più volte l’ultimo film di Hong Sang-soo in una dimensione altra rispetto a qualsiasi cronologia fattuale, vediamo la giovane ragazza dormire sul tavolo di una biblioteca, di fianco un testo su cui il regista Coreano sembra insistere molto, scritto a novantanni e in lingua inglese dal filosofo tedesco Norbert Elias nella prima metà degli anni ottanta: The Loneliness of the Dying. Elias, che più di altri spinge l’analisi sociologica a livello di processo e relazione per superare quella separazione spesso netta tra individuo e società, in questo testo “estremo” unisce i “vivi e i morti”; la solitudine del morente non è solo quella della rimozione e dell’esorcismo di tutto quello che riguarda l’inacettabilità della morte stessa ma è anche l’idea che morire da soli accentui il fatto che si vive anche da soli. In un cinema come quello di Hong Sang-soo e nella vita sonnanbula di Haewon, attraversati entrambi da un’indeterminismo che consente di ricombinare gli eventi a partire da dettagli periferici e marginali, la posizione del testo di Elias sembra uno stimolo a leggere lo stesso Nobody’s Daughter Haewon come una riflessione sul cinema del regista coreano, apparentemente e minimalmente sempre uguale a se stesso come i racconti morali di Rohmer in questa riduzione minima della sintassi cinematografica, ma con una qualità palindroma che scardina qualsiasi apparato metavisivo nella vertigine di un sogno che (si) sogna e che a volte si apre ad una tragica parodia dei modelli francesi a cui Hong Sang-soo si riferisce. La madre di Haewon sta per partire per il Canada, la sua storia d’amore con Lee, un professore sposato e più grande di lei, non riesce ad andare avanti, in mezzo a tutto questo gli incontri con alcuni amici e un anziano professore che ha una cattedra negli States con cui potrebbe iniziare una storia ma che potrebbe essere una di quelle immagini allo specchio frequenti nel cinema del regista Coreano. La perdita della realtà nel cinema di Hong Sang-soo è allora una complessa relazione tra individuo e spazio urbano, che viene colto solo attraverso la frammentazione psicologica e interiore, aspetto che ci fa tornare per forza a Norbert Elias in una combinazione, fortunatamente irrisolta, tra realtà mondana ed elementi metafisici. Sono molti gli elementi compresenti anche in questo Nobody’s Daughter Haewon, dove l’ordinarietà degli eventi viene trasformata in un’esperienza parallela con apparizioni che provengono da un tempo indistinto; lo dicevamo all’inizio, non esiste cronologia fattuale nel cinema del regista coreano e quello che sembra un procedere per quadri è in realtà una continua distruzione degli stessi; interna, con movimenti di macchina improvvisi, zoom brutali, slittamenti di senso, attenzione ad oggetti e dettagli che gettano nel caos il “sistema” temporale della sequenza; esterna per il modo infinito con cui sarebbe possibile combinare e far comunicare tra di loro le apparizioni, le relazioni tra personaggi collaterali, e tutti quegli elementi che frappongono un mondo materiale all’immagine che proviene da un tempo palindromo (sonno, sogno, ricordo, desiderio, non ha importanza). Haewon apparentemente non riesce ad uscire da alcuni impasse traumatici per evolvere la propria storia personale, come se l’orizzonte degli eventi, dei luoghi e degli oggetti che la legano ad un passato definito assumessero l’orizzonte di uno spazio negativo, ma allo stesso tempo, la possibilità di aprirsi ad un significato che va oltre il fenomeno stesso (una sigaretta, la statua di un giardino, l’incontro con Jane Birkin, l’enigmatica auto-agnizione con il professore che insegna negli states e il libro di Elias appunto). E’ questa continua relazione tra sonno e risveglio, che sposta continuamente l’asse percettivo e interiore di Haewon e che ci coglie sempre senza fiato in sala, a perderci un pezzo di film, a dover gestire un colpo di sonno, la perdita di un frammento o l’amnesia come l’unica esperienza di Cinema davvero possibile.