Eccolo, l’ultimo spicchio della trilogia paradisiaco-pulsionale di Ulrich Seidl dopo l’Amore passato a Cannes e la Fede in concorso a Venezia. Un’attenta distribuzione festivaliera della propria opera che ricorda i tre colori di Kieślowski apparsi a cavallo del 1994 tra Venezia, Berlino e Cannes. Sembra che Seidl, con Paradies, abbia proprio imparato ad abbondare, dopo svariati progetti contraddistinti dal contagocce. Ripensiamo al ciclone Canicola che investì il Lido 2001: a colpire non fu solo il metodo semidocumentaristico adottato dal regista austriaco – rimasto intatto negli anni – ma anche le ore e ore di pellicola impressa e messa da parte affinché nulla, nel final cut, fosse una seconda scelta o recasse i tratti della mansuetudine. Ovvio, non è sempre possibile girare cinque film e compattarli in uno come accadde per Canicola.
Già Import / Export (2007), come suggerisce il titolo, era “soltanto” un film uno e doppio, mentre per il progetto Paradies Seidl ha optato per una manovra più sagace dal punto di vista commerciale e dell’esposizione mediatica. Le protagoniste sono tre come le loro storie lascamente incrociate, ma invece di realizzare un’unica pellicola sugli abissi interiori di Teresa (Margarete Tiesel), sua figlia Melanie (Melanie Lenz) e sua sorella Anna Maria (Maria Hofstätter), la scelta è stata di dedicare un film a ciascun personaggio. Ecco quindi lo strepitoso Liebe, sulla vacanza sessuale (o diversamente romantica) di Teresa in Kenya, Glaube che declina in chiave narrativa l’indagine sulla follia della fede religiosa già affrontata nel documentario Jesus, du weißt (2003) e infine questo Hoffnung, in cui la pingue Melanie, mentre la mamma si gode le ferie, si fa portare dalla zia bigotta in un Diät Camp: un campo estivo per giovani sovrappeso.
È estate, ma invece della canicola si alternano timidi giorni di sole al tipico grigiore con pioggerella mitteleuropeo. Gran parte del film è però ambientata all’interno del colossale istituto-caserma alle periferie di un piccolo centro austriaco, dove Melanie coltiva, più che la speranza di dimagrire, quella di vivere il suo primo amore… col medico del campo, interpretato dal tenebroso cinquantenne Joseph Lorenz. Rispetto agli altri due film “paradisiaci”, Hoffnung ci va con mano più leggera (non a caso la protagonista è minorenne) e anche il tema è meno diretto rispetto all’amore – disperato, colonialista, marchettaro – del primo film o alla fede sbertucciata senza pietà negli interni claustrofobici del secondo. Certo, Seidl non si fa scrupoli nell’inscenare gli allenamenti dei tombolotti messi in riga dallo squallido trainer Michael Thomas, una specie di versione austrosbracata del Lee Ermey di Full Metal Jacket. Si ride, a denti stretti, e il siparietto con la canzoncina “If you’re happy and you know it clap your fat” ha un alto potenziale virale, inutilmente ribadito dai titoli di coda. Ma il cuore del film è altrove, nel flirt “scandaloso” tra Melanie e il dottore, in cui non è scontato dire chi sia il predatore, chi la preda. Il film alterna scene (e dialoghi) da pelle d’oca a momenti lirici inattesi, di autentica tenerezza, forse l’unica vera new entry del cinema entomologico di Ulrich Seidl, sempre a un millimetro dall’exploitation pura e semplice. Purtroppo questo non basta a connotare la pellicola nel suo complesso e a salvarla dalla pessima sensazione che sia troppo lunga, pur col suo minutaggio di 91 minuti.
Hoffnung non ha la cadenza vorticosa da discesa agli inferi di Liebe e a volte sembra menare il can per l’aia, offrendo scene intercambiabili. Resta uno spettacolo visivo originale e stimolante, in puro stile Seidl: messa in scena per quadri e tableaux, location più vere del vero, attori non professionisti che bucano lo schermo e, ciliegine sulla torta, i loro corpi. Stesi, inerti, pittorici, oppure intenti ad attraversare l’inquadratura fissa a mo’ di processione (meglio se con capriole). Bestie umane che Seidl ci dà in pasto ancora una volta, con la speranza – flebile, troppo flebile – che oltre al corpo ci sia di più.