Sarebbe bastato fare di Pardé un Kammerspiel elementare e allucinante sulla condizione dei cani in Iran, quale è il film per i suoi primi venti minuti di durata. Poi le cose si complicano. Entrano in scena altri due personaggi, in particolare una ragazza di nome Melika (Maryam Moghadam), ex giornalista embedded con istinti suicidali inseguita dalla polizia per aver fatto bisboccia in spiaggia con un gruppetto di amici. Il volto dell’uomo le è familiare nonostante si sia appena rasato a zero. L’ha visto sul giornale. Fino a qui, come dire, tutto bene. La progressione narrativa del film è lineare, la qualità basica delle immagini rasenta il sublime quando inquadra la notte fonda con le sue sfumature di grigio nerastro, il ritmo aumenta passo passo e con esso il numero degli elementi da tenere sott’occhio. Una complessità in graduale aumento che a un certo punto si fa caos perdendo qualsiasi appeal, dal momento che la ragazza scompare dalla circolazione e comprendiamo che non è reale. Così come l’uomo, che sta scrivendo una sceneggiatura, è in realtà Jafar Panahi, o meglio una proiezione di Panahi. Il quale, di punto in bianco, si palesa in casa davanti a tre maxiposter dei suoi film (Il cerchio, Il palloncino bianco, Lo specchio) dai titoli ribaltati, perché stiamo guardando uno specchio.
In tal modo, Pardé attraversa lo specchio e il film diventa un’automobile dal cofano di cristallo il cui motore, in bella vista, romba a casaccio. Dai tempi del miglior Kiarostami, il cinema iraniano ha sempre saputo coniugare l’estrema semplicità con le raffinatezze del gioco metacinematografico. Nella seconda parte di questo ‘Sipario chiuso’, tuttavia, la messa in abisso è così pasticciata, esibita, insostenibile, da sconfinare nell’onanismo puro e semplice. Un segone a due mani. Anzi, quattro. Lungi da noi, con questo, ridicolizzare l’uomo Panahi. Semmai, è doloroso constatare come il suo caso umano e politico abbia generato una tale quantità di discorsi retorici da contaminare persino questo suo film teleguidato, tanto brutto e goffo quanto protetto dalle armate del politically correct.
Nel 1982 Yılmaz Güney, dalla cella delle sue prigioni, diresse Yol per interposta persona e trionfò a Cannes. Oggi un regista iraniano di talento, inviso al regime e impossibilitato a lavorare, sceglie di scrivere di co-dirigere, di fare il tecnico del suono (come si vede in una delle scene più smaccatamente meta) e di comparire, persino, in carne, ossa e maglietta Lacoste (per tacer del Suv) in un film che si scopre essere… su di lui, sulla sua condizione. In casa sua. Alla stampa, Partovi ha dichiarato che Panahi ha scelto di farlo perché, non potendo raccontare storie altrui, non gli resta che raccontare la propria usando una villetta come metafora delle costrizioni impostegli. Benissimo. Il problema è che in Pardé il buon Panahi se la canta e se la sona in maniera imbarazzante e a tratti vergognosa, mancando di rispetto allo spettatore e trascinandolo senza pietà per tutti gli ultimi venti minuti di film, più telefonati e velleitari di un cortometraggio sperimentale del dams. Oppure ci sbagliamo di grosso e l’iPhone a cui lo scrittore ha tolto la sim riducendolo a videocamera amatoriale è una metafora riuscita e vibrante di un cinema forzatamente casalingo. Chiedetelo alla videoartista Shirin Neshat, iraniana, membro della giuria, che ha ronfato per buona parte della proiezione per la stampa e si è svegliata solo quando i buu si son mischiati agli applausi. Di rito.