David Gordon Green è tra quei cineasti Americani corteggiati dalla critica “indie” e politically correct statunitense, un binomio che non ci ha mai convinto e che ha collocato inizialmente i film del cineasta dell’Arkansas in quella regione di confine che sta tra il racconto di formazione e una visione partecipata del rapporto con la natura. Le apparenti derive (titoli come Lo Spaventapassere, Strafumati), pur integrando con una certa intelligenza il recupero del miglior demenziale ottantiano, le si possono considerare semplicemente come un tentativo di camuffare un cinema prudente attraversato da un simbolismo tematico ingombrante, con un propellente superficialmente anarcoide. Niente a che vedere insomma con la stratificazione politica e storico-cinematografica di un autore come Paul Weisz. A conferma di una parabola ancora troppo poco convincente questo remake di Either Way, diretto due anni fa dall’islandese Hafsteinn Gunnar Sigurdsson. Nella versione di Gordon Green, i personaggi interpretati da Emile Hirsch e Paul Rudd , Lance e Alvin, percorrono un lungo tratto di strada all’interno del parco nazionale di Bastrop, in Texas; devono tracciare tutta la segnaletica e questo li costringe ad una sorta di “falso movimento” che per Gordon Green è l’occasione per contaminare tradizione “on the road” e un sentore di cinema filosofico che si apre a numerosi aspetti legati anche alle radici di una nazione. Da un certo punto di vista il cineasta Americano coglie l’occasione per prendere le distanze dal film originale con una propensione più astratta e iperrealista che recupera quel mix tra bioetica e “coming of age” del suo primo cinema, costruendo un film apparentemente libero e dalle intenzioni sperimentali, come se fosse il Paul Thomas Anderson delle origini, meno magniloquente, più intimista ma con la stessa intenzione di lavorare sulle reiterazioni invece che sullo sviluppo in senso classico; un’ipotesi che svanisce presto a causa del lavoro su una materia fortemente simbolica con il rischio della nota a margine. Prince Avalanche non è un film sgradevole ma non decolla, in una prospettiva anche solo politica non dissimile da quella dell’ottimo Promised Land di Van sant, non lavora esattamente sullo sguardo, ma sul visivo, con un carico di segni che non consentono possibilità alternative rispetto alla loro funzione connotativa. Basta pensare ad un’occasione sprecata come quella della vecchia trovata in mezzo al bosco mentre recupera i relitti della sua casa distrutta da un incendio; Green insiste sulle apparizioni di questo personaggio a metà tra il sogno e la manifestazione oltre il visibile, cercando in qualche modo di indicare un rovesciamento di prospettiva rispetto a chi possa essere in fondo il vero fantasma, allusione che non sembra cosi ambigua, ma che rivela al contrario il cuore retorico del cinema di Green.