Nell’ipotesi che Contagion, uno dei film più recenti di Soderbergh, possa diventare un serial per Netflix, Scott Z. Burns, sceneggiatore del film e anche di quest’ultimo Side Effects, parlava in una recente intervista di qualità “frattale”, un aspetto importante dal suo punto di vista perchè “ogni volta che viene considerato un personaggio, quando diventa come un virus, tutto può cambiare“. Ecco che l’effetto collaterale, sin dal titolo dell’ultimo film di Steven Soderbergh, lascia dietro di se la proliferazione di un sistema seriale che rispetto a quello che si rilevava in Contagion, radicalizza ancorà di più l’automazione del dispositivo. Nel cinema di Soderbergh non mancano mai occhi elettronici, punti di vista disincarnati, meta-visioni che scardinano qualsiasi retorica meta-visiva perchè è proprio lo scollamento tra responsabilità soggettiva e macchina a spingere fuori le immagini dal recinto di sicurezza del narcisismo autoriale. Come nel Carpenter degli ultimi due lungometraggi, c’è nel cinema di Soderbergh una contrazione quasi impossibile di generi che ha ben poco a che vedere con la vertigine affettiva di origine Cinefila, siamo dalle parti di un sistema cognitivo che deturna, letteralmente, da una traccia all’altra, complicando la relazione tra cosa vista e cosa raccontata, tra immagine e memoria, ma soprattutto tra Cinema e le immagini residuali di un database che nega ogni volta la sua “oggettività” documentale, come i passaggi successivi di un “encoding”. E’ forse cinico Soderbergh? Nè più nè meno del nostro modo di esserlo quando ci illudiamo di trasformare l’esperienza di condivisione sui social network in un’esperienza connettiva; Side Effects è anche, nella misura in cui lo dicevamo di The Social Network, un’esperienza possibile sulla falsificazione del testo elettronico e sul modo in cui questo modifica la nostra percezione delle relazioni; le agnizioni in Side Effects sono accompagnate dalla verifica di un dispositivo che distrugge il precedente, anche in questo senso, il ricorso alla definizione di “racconto corale” per descrivere il cinema di Soderbergh ci sembra inesatto dal momento in cui i processi percettivi in gioco hanno una qualità disgiuntiva, proliferano per contagio e non si moltiplicano. Verrebbe in mente Sucker Punch, almeno in quella relazione tra “cutscenes” di valore espositivo (ne avevamo parlato da questa parte) e la disseminazione di queste in una serie di varianti ed estensioni possibili, desunte dall’architettura di alcuni Role Playing; In sucker Punch, per certa critica, l’immagine dopata e l’effetto collaterale sono accettabili nonostante una derivazione tutto sommato post-rave a rischio monodimensionalità, in Soderbergh no, perchè è freddo, non c’è passione, perchè odia i suoi attori e li utilizza come dei pupazzi con i quali costruire fastidiosi esperimenti narratologici; quindi la Paltrow con il cranio scoperchiato dopo venti minuti scarsi di Contagion, il lavoro di sottile rovesciamento della fenomenologia legata ai personaggi interpretati da Rooney Mara proprio a partire dalla sua consueta liminalità borderline, Jude Law che diventa un automa mostruoso, Channing Tatum che scompare e ricompare in una posizione seriale diversa (come la Paltrow in Contagion) e via dicendo, ovvero tutto questo per una certa critica è il lavoro di un cinico burattinaio di blockbuster (tra l’altro, la definizione, ci potrebbe anche piacere molto). Questione di “chimica” quindi; fermo restando che a partire dal 2014, dalla chimica passeremo definitivamente al digitale, noi non siamo d’accordo, anche perchè l’amore talvolta, è più freddo della morte.