Ma come, un cartone animato nella selezione ufficiale? E in 3D, per giunta? In tre dimensioni a mezzo occhiali, sì, e unico film della Berlinale 2013 a prevedere la tecnologia che ha fatto impazzire i multisala e i prezzi di ammissione. A ben vedere, questa produzione Dreamworks non è l’unicissima proiezione di quest’anno a prevedere il 3D, ma se aggiungiamo che l’altro film in programma è Dial M for Murder (1954) di Hitchcock, il titolo salta indubbiamente agli occhi. In tutti i sensi.
Una breve riflessione sul 3D prima di passare alla recensione vera e propria. Due anni fa, il programma della Berlinale vantava almeno un paio di titoli d’autore girati in 3D, Les contes de la nuit di Michel Ocelot e Cave of Forgotten Dreams di Werner Herzog (recensito da questa parte su indie-eye). D’autore più che mai, dal momento che se Ocelot, regista d’animazione vecchio stampo cultore delle ombre da lanterna magica di Lotte Reiniger, sfrutta la terza dimensione per creare uno stacco tra diversi piani bidimensionali, come in un teatrino di cartone, Herzog usa il 3D per filmare in maniera avvolgente e complice lo spettacolo più antico del mondo, inaccessibile al pubblico. Di idee così brillanti e di progetti così urgenti, finora, nell’ambito del cinema a tre dimensioni se ne son viste pochine, tant’è che allo stato attuale delle cose, dopo il boom di Avatar, questa tecnologia è diventata una sorta di “colorizzazione” del 2D standard, un mero stratagemma per drogare la visione e il prezzo del biglietto. In sintesi: la tecnologia è matura, il linguaggio cinematografico corrispondente no. (N.d.r.consulta a questo proposito la rubrica La terza Dimensione su indie-eye, dove vengono raccolti articoli e approfondimenti che ne affrontano aspetti linguistici e narrativi)
Fa tuttavia eccezione il cinema digitale a cartoni animati, una delle poche certezze dell’intrattenimento dei giorni nostri. Non se ne può più di sentire che le serie televisive americane hanno ormai superato Hollywood dal punto di vista creativo e che i film della Pixar sono uno più bello dell’altro, ma per onestà intellettuale bisogna ammettere che questo passaparola è supportato dai fatti. E The Croods, non Pixar ma Dreamworks, non fa eccezione. Proprio perché il 3D funziona quando si ha il controllo totale su ciò che appare sullo schermo: la cruda realtà a tre dimensioni in cui siamo immersi fatica a lasciarsi domare dalle macchine da presa tridimensionali. Perlomeno quando si tratta di raccontare una storia.
Tratto da uno script che oltre alle firme dei due registi reca anche quella del Python John Cleese, il film è una versione reloaded degli Antenati, con doppiatori d’eccezione come Nicolas Cage e Cloris Leachman. La trama rispetta i più abusati format a stelle e strisce: più solida di una roccia, dispensa l’obbligatorio happy end, azione a profusione e un messaggio cristallino che rasenta il pistolotto. Quale? Semplice e platonico: non bisogna starsene chiusi nelle caverne, impauriti e ligi alle regole, bensì esplorare il mondo, ingegnarsi, scoprire il fuoco. A leggerlo suona banale, ma questa in fin dei conti è solo una recensione, un testo di secondo grado. Che ben poco ha che spartire con “the real thing”, a maggior ragione quando lo spettacolo offerto dal film è del tutto autosufficiente. Il resto conta poco. Basta sedersi, inforcare gli occhialoni e lasciarsi portare via dalle pitture murarie animate, in quella caverna dei sogni perduti che è il (miglior) cinema.