Sono numerose le fonti documentali alle quali Rob Epstein e Jeffrey Friedman hanno attinto per la produzione di Lovelace, il film dedicato a Linda Susan Boreman, poi Linda Marchiano, protagonista di quella breve stagione che nei primi anni settanta cambiò completamente l’industria statunitense del porno. Il materiale di partenza è quello del libro scritto da Eric Danville e intitolato ‘The Complete Linda Lovelace‘, adattato per lo schermo da W. Merritt Johnson, ma questo, nello stile cross mediale di Epstein e Friedman, interagisce con interviste televisive ricostruite, drammatizzazioni delle sequenze più note di “Gola profonda“, cronaca del tempo, materiale audiovisivo privato, testimonianze familiari e frammenti generati dalla lettura di Ordeal, il libro scritto dalla stessa Lovelace negli Ottanta, penultima delle sue biografie, pubblicata sei anni prima di “out of bondage“, scritta a quattro mani con Mike MCGrady e prima dove racconta pubblicamente gli abusi subiti durante quegli anni dal marito Chuck Traynor. Prima di questo celebre coming out, Epstein e Friedman sembrano rimuovere completamente la strategia editoriale precedente legata agli anni successivi all’uscita di Gola Profonda e costituita da due pubblicazioni firmate dalla Lovelace, in sintonia con la sua immagine di ancella del sesso libero. Mentre Matthew Wilder mantiene in un difficoltoso stato di pre-produzione il suo personale adattamento di “Ordeal”, intitolato “inferno: A Linda Lovelace story”, il film di Epstein e Friedman approda a Berlino dopo il recente passaggio al Sundance Film Festival creando più di un curioso corto circuito. A differenza di quella relazione onesta e stratificata tra documento, testo letterario, performance e parola che si fa immagine in Howl, il film interpretato da James Franco, dedicato ad Allen Ginsberg e diretto dai due documentaristi “eretici”, Lovelace sembra perdere l’occasione di lavorare sui margini, sui confini, su tutti gli elementi collocati fuori dalla centralità di una mitologia ormai conosciutissima; se il set di Gola Profonda viene in qualche modo smontato e ri-visto da una prospettiva esterna, lasciando emergere l’osservazione di un cinema in miniatura assorbita da una ricostruzione degli anni settanta più quotidiana, banale, casalinga, fuori dalle rivisitazioni cultuali, questo sottomondo rimane in una posizione inerte e collocato pericolosamente ad una distanza di tipo morale sin troppo definita. Non è certo possibile considerare la complessità antropologica di tutto quello che ruotava intorno a Linda Lovelace solamente da quell’angolatura che riduce la questione ad un problema di violenza domestica, tanto da non risultare incisivo e convincente neanche su questo piano. Amanda Seyfried ha una freschezza a tratti sorprendente, ma proprio per questo ipostatizza l’icona della Lovelace in un tabernacolo devozionale di proporzioni quasi Mariane. Ed ecco il primo corto circuito, l’immagine oleografica di una libertà settantiana dalle fattezze virginali che tenendo fuori campo cazzi e pompini, li rende educatamente desiderabili, posturalmente quotidiani e adolescenziali, tanto da strappare una serie di risate in sala, in quel contrasto tra candore e sesso non lontano dai racconti proibiti nell’ombra di qualsiasi oratorio. Tutto l'”inferno” del primo cinema di Gerard Damiano, già fortemente teorico e ambiguo sin dalle sue origini, viene tagliato fuori e ricostruito con gusto macchiettistico; c’è tra l’altro una disonesta consapevolezza in questa rimozione, ci riferiamo alla sequenza di apertura, dove Linda con i capelli raccolti fuma una sigaretta nella vasca da bagno, Epstein e Friedman inquadrano i bei piedi nudi della Seyfried, in un momento che ricorda una versione candida e innocua dei desideri suicidali di Georgina Spelvin, la Miss Jones di Gerard Damiano che con i piedi laccati gioca in vasca da bagno con il rubinetto dell’acqua. Il secondo corto circuito è una relazione tra esterno e interno che attraversa trasversalmente il film; senza attardarsi in un gioco fenomenologico sulla presenza di Juno Temple e della stessa Seyfried, la prima immagine ambigua nell’anarcoide Killer Joe, l’ultimo film di William Friedkin attraversato da una ferocia decisamente porno e la seconda co-protagonista di un film come Jennifer’s body, piccolo dispositivo superficialmente post-femminista che di fatto si tramuta in un’apologia del sesso orale; senza appunto attardarsi in una serie di suggestioni combinatorie, la presenza di James Franco a Berlino con Interior Leather bar (e al sundance, dove veniva presentato Lovelace, anche con la produzione del documentario diretto da Christina Voros e intitolato Kink, realizzato in collaborazione con la casa di produzione specializzata in film fetish estremi, Kink.com) basta da sola a disinnescare l’operazione falsificante e politically correct di Epstein / Freidman.