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Berlinale 60: conferenza stampa

Berlinale 60: conferenza stampa

Berlino, 1 febbraio 2010

Presse – und Informationsamt der Bundesregierung, ore 11:00

berlinale_60_coverFuori, a un tiro di schioppo, c’è la Spree con i suoi indolenti lastroni di ghiaccio. Dalla neve sbucano qua e là i lightbox pubblicitari della Berlinale imminente, la numero sessanta. C’è un primo piano di Scorsese da rivista farmaceutica, un ritratto di Doris Dörrie sorridente e un po’ impacciata, Ewan McGregor che si mangia chi gli passa davanti. La sala della conferenza stampa è enorme e strapiena, con i fotografi assembrati a ridosso delle nove sedie rosse. L’ultima ad arrivare, persino dopo il direttore Dieter Kosslick, è una vecchierella ottuagenaria di rosso vestita, con un grosso macchinone fotografico a tracolla. La dama s’infiltra lemme tra i fotografi e si piazza davanti a tutti, al centro, inamovibile. Per tutta la conferenza stampa detterà ordini a giovanotti armati di Macbook e chiavetta, sposterà senza ritegno vichinghi in giacca e cravatta, ignorerà malumori e cortesi richieste di levarsi dalle balle. Lei è venuta per fare le sue foto, e le fa santoddio, le fa.

Prima delle chiacchiere ufficiali parte un breve filmato che ricorda i primi anni del festival, quando i divi si facevano strada tra folle in delirio e cumuli di macerie. Quando c’erano i settori ma non c’era il muro, e Willy Brandt non vedeva l’ora di fare il sindaco. Poi si parte. La Berlinale 60 è prima di tutto un evento che celebra se stesso e la propria età tonda tonda. Lo fa concedendosi un presidente di giuria che riassume in sé la Baviera, la Germania e il mondo intero visto da prospettive inedite (Werner Herzog), lo fa proponendo l’ennesima versione restaurata di Metropolis, integrata con i 25 minuti in 16mm recuperati a Buenos Aires, lo fa infine con una retrospettiva di film e corti tratti da decenni di Orsi d’oro e d’argento. Il motto è, in inglese, Happy Birthday, e il direttore Kosslick, pimpante e sbarazzino, è indubbiamente in vena di celebrazioni. La conferenza stampa passa in rassegna tutte le branche del festival, dal concorso alle proiezioni per gli addetti ai lavori, dalla presenza attiva dello studioso David Thomson alla presenza/assenza dell’artista britannico Bansky, autore del misterioso, Exit Through the Gift Shop, che non si farà riconoscere ma girerà per il festival lasciando tracce, chi lo sa, graffiti e pernacchie.

Com’è ovvio ogni festival, specie se di questa portata, all’inizio è solo mere cifre e titoli nudi – i bilanci si traggono alla fine, così come alla fine si colgono, se proprio, gli eventuali fili rossi. La Berlinale 60, sulla carta, è un Moloch da 392 titoli e da 866 proiezioni battenti 58 bandiere nazionali diverse. La presenza tedesca è massiccia – 84 film – così come quella femminile dietro alla macchina da presa, con 123 pellicole in quota rosa. Il concorso sfodera assi come Wakamatsu, Polanski, Vinterberg e Oskar Roehler, il più spudorato autore tedesco vivente, che porta un film intitolato Jud Süss – Film ohne Gewissen (film senza coscienza), cioè a dire la storia di come nacque la più infame pellicola antisemita ideata da Goebbels. Una sorta di Celluloide di Lizzani alla rovescia. Tra gli altri titoli, pescati alla rinfusa nel tourbillon, il nuovo film di animazione di Sylvain Chomet (L’illusioniste), due documentari su donne forti e femmine fatali firmati da leggende del calibro di Lothar Lambert e Rosa von Praunheim (rispettivamente il re dell’underground berlinese e il capofila del cinema frociomilitante della RFT), un documentario su un altro autore lateralissimo come Daniel Schmid (Le chat qui pense), otto ore dedicate da Dominik Graf alla mafia russa di stanza a Berlino (Im Angesicht des Verbrechens), pochi minuti di Spike Jonze su due computer che s’innamorano (I’m Here, probabile follia à la Svankmajer) e infine, quasi commovente nella sua demenziale incongruenza, la sezione In the Food for Love – cinema culinario. Sezione che il direttore Kosslick descrive di persona in chiusura di conferenza stampa, con l’acquolina alla bocca e parole commosse per Das Brot des Bäcker (1976), film di forni e fornai con Günther Lamprecht, il protagonista del Berlin Alexanderplatz fassbinderiano. Uno dei temi più presenti, ci tiene comunque a dire Wieland Speck, storico direttore della sezione Panorama, sarà quello della disfunzionalità della famiglia. Va bene. Nel frattempo però Kosslick ha già fatto cenno alla sua sinistra, si è spalancata un’uscita d’emergenza e sono entrati due chef con tanto di cappello da chef e carrello tintinnante su cui campeggia la Torta Celebrativa. Con una sala piena di gente e un dolce alla panna di quelle dimensioni, Mack Sennett o Peter Bogdanovich si sarebbero sbizzarriti.


Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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