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Berlinale 61 – Mondo Lux – Die Bilderwelten des Werner Schroeter di Elfi Mikesch (Germania, 2011)

Werner Schroeter ci ha lasciati il 12 aprile 2010 (qui su Indie-eye il nostro ricordo, scritto qualche giorno dopo). Prima che regista cinematografico e teatrale, prima che perfezionista puntiglioso, fotografo estatico e intellettuale raffinato, era un gran indossatore di cappelli. A falda larga. Un bevitore di champagne (mi raccomando il flute) e una persona che non scendeva a patti con niente e nessuno pur di fare le cose a modo suo, pur di creare il proprio mondo artistico. Era un dandy, Werner Schroeter, uno dei venti ragazzi della scuola di cinema di Monaco quando in classe c’era anche Wim Wenders. A Schroeter le lezioni mettevano una tristezza abissale. Mollò la scuola e cominciò a girare i suoi primi film, come Eika Katappa (1969), una galleria di figure che muoiono e rimuoiono mentre la colonna sonora pompa arie d’opera. Quando Elfi Mikesch ha cominciato le riprese di questo documentario, Schroeter era già malato. Mireille, il suo cancro, gli si era già aggrappato alla laringe. Ed è lottando come un Sigfrido che ha girato forse il suo film più bello, l’ultimo: Diese Nacht (2008).

Mondo Lux testimonia gli ultimi due anni e mezzo della vita di Schroeter, e li alterna a una discreta selezione di scene tratte dalla sua ampia, sofferta filmografia. Sì, perché nonostante l’Orso d’oro nel 1980 per Palermo oder Wolfsburg, Schroeter non ha mai avuto vita facile con produttori e distributori, che l’hanno ostracizzato a ogni piè sospinto. A poco servì, nei primi anni Ottanta, l’aiuto dell’ex compagno di corso Wim, che aveva fatto tesoro delle lezioni di cinema bavaresi e della furbizia necessaria a sfangarla nel mondo trasho delle belle arti.

Mondo Lux capta Schroeter impegnato nel doppiaggio tedesco di Diese Nacht e nelle prove di Antigone // Elektra (due progetti che ha realizzato alla Volksbühne di Berlino), in occasione del vernissage della sua mostra fotografica Autrefois et toujours e in compagnia di alcuni amici intimi, in particolare l’ex fidanzato di quarant’anni fa Rosa von Praunheim, grazie al quale l’atmosfera un po’ stagnante e rinsecchita del film prende il volo, e impara cosa sono l’affetto e la leggerezza. Tra i contributi successivi alla sua morte spicca, per vis critica (e umorismo devastante) quello dell’impagabile Peter Kern. Ingrid Caven, al solito presunta diva, ha almeno il merito di descrivere l’ultimo progetto cinematografico di Schroeter, Josephine und Ich, storia di un’ex cantante nazista rintanata nella sua magione in compagnia della fida domestica ebrea.

Non si sa come, ma la camera di Mikesch, direttrice della fotografia di Schroeter dal 1985, filma senza centrare l’obiettivo, e il risultato finale è poco più che scolastico. Forse è la tensione della malattia, il rischio percepito di fare un Nick’s Movie al capezzale di un amico. Oppure, per via della vicinanza, l’incapacità di fare un passo indietro e di cogliere la grandezza dell’uomo, ancor prima dell’artista. E per quanto qua e là vi siano dei dettagli che restano nella memoria – la mano di Rosa che gioca ossessivamente col filo del telefono mentre flirtano, Wim Wenders tagliato dall’inquadratura mentre parla con un Werner esausto durante delle prove – l’impressione che si ha è di un’occasione mancata, di un diario raccogliticcio. Resta ancora tanto da raccontare su Werner Schroeter e sulla sua Weltanschauung tragica e sorniona insieme. Basterebbe scrivere una sceneggiatura sulla comune in periferia di Monaco dove Werner sfumacchiava con Fassbinder, la Caven e Magdalena Montezuma per raccontare in un tinello il Neuer Deutscher Film. “Chi non sa scendere a patti con la malattia dovrebbe ammazzarsi subito” dice in una scena, con la perenne sigaretta tra le dita affusolate. Lui ha fatto di più: ha dato un nome francese al proprio male. E dei minuti che gli restavano non ne ha perso neanche uno.

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