Se si esclude il documentario dedicato a Ichikawa Kon, Vampire è l’unico lungometraggio diretto da Shunji Iwai dal 2004, ovvero dall’anno di uscita di Hana & Alice.
Realizzato dal regista Giapponese nel contesto di una venture tra l’americana Convergence Entertainment, la Giapponese Rockwell Eyes (la stessa che ha prodotto Hana to Arisu e Ichikawa Kon Monogatari) e la Canadese V Project Canada Productions, il film è Interpretato da Kevin Zegers (Transamerica, L’alba dei morti viventi di Snider, Wrong Turn, la serie televisiva Gossip Girl) e girato in parte nella vastissima area forestale delle zone occidentali di Vancouver, con le intenzioni (dichiarate da Iwai stesso) di riprodurre le condizioni climatiche dell’isola di Hokkaido.
Kevin Zegers è Simon, un biologo di 28 anni a caccia di aspiranti suicide, il primo incontro che vediamo è con una giovane ragazza al centro di un ampio e isolato parcheggio, lei si chiama Jellyfish, avatar con cui è iscritta ad un forum online chiamato sydebycide.com dove Simon si presume recluti le sue potenziali vittime. Aspetto fondamentale, che al solito, solamente un’accurata sinossi ha il potere perverso di dissinescare. Iwai non rende particolarmente esplicita la presenza della rete, tanto da presentarci questi elementi come apparizioni fugaci, materializzando figure di cui non conosciamo la provenienza e che si manifestano con nomi molto simili ai personaggi di transito di All About Lily Chou Chou.
Vampire sembra assorbire quel vagabondaggio globale dei cittadini virtuali disseminandolo in un contesto apparentemente “reale”, e confondendo nuovamente i piani. Se la rete di All About lily chou chou era quasi un dispositivo evoluto e negativo vicino al concetto di intelligenza tribale di McLuhan, e completamente in movimento con la macchina cinema, tanto da farsi linguaggio sonoro e tattile, a partire dalla trasformazione della parola condivisa delle chat inter-relate; i rapporti connettivi in Vampire penetrano completamente il tessuto relazionale quotidiano. L’oggetto rete viene quindi rimosso completamente, tanto da comprendere quale sia il gioco di Simon, o meglio ancora, la sua consistenza interstiziale (tra reale e virtuale) solamente grazie a visioni periferiche, fugaci, un retrieval di fotografie relative ad alcune chatters che scorrono sul suo telefono, la schermata di sidebycide.com che scorgiamo appena e di cui non saremo in grado di comprenderne il vero funzionamento.
Sembra che in tempi recenti due registi giapponesi molto distanti tra di loro ed entrambi alle loro prime esperienze anglofone abbiano scelto una rappresentazione completamente interiore della rete, ci riferiamo, oltre che al film di Iwai anche a Chatroom di Nakata Hideo, stranissima e forse irrisolta “drome” tra il suburbano e l’archeologia delle chat in 3D, tanto da riprodurre in modo sorprendente e originalisssimo l’idea dello spazio transitorio di esperienze collettive come la tedesca Moove online, di molto precedente allo sviluppo globale di Second Life. Con risultati nettamente diversi, Chatroom e Vampire ribaltano la prospettiva reale-virtuale utilizzando il dispositivo cinema in modo iperrealistico, dipingendo gli ambienti con colori che stanno a metà tra il digitale e il graffitismo di un Toxic o al contrario, sottraendo il bombardamento psichico con un’incertezza dello sguardo di tipo documentale. Vampire penetra i sogni condivisi della rete con una forza che in sala strappa la risata, ma che evidentemente entra direttamente nella formazione del linguaggio adolescenziale, più a fondo e soprattutto in modo più doloroso di chi fa mercato di quel semema. Le creature di Vampire, i suicidi improbabili, il vampirismo di cartapesta, il macabro come gioco di ruolo, il rapporto di Simon con le sue vittime, tra invito al suicidio e intimità, attraversano stati che non si risolvono se non nell’interstizio tra informazione digitale e desiderio aptico (il prelievo ematico, l’erotismo fanciullo nella sequenza dove Simon succhia sangue infetto a Ingrid), qualcosa che la dinamica orizzontale sogno / realtà potrebbe raccontarci solo a patto di sminuire la perversità dell’immagine digitale contemporanea.
Vampire in questo, è lontano anni luce dall’improbabile esperimento di Kevin McDonald, consolatoria polaroid dei vecchi villaggi globali, che esistono solo nella mente di chi può concepire un’immagine del potere, travestita da progetto partecipativo, come quello che prende forma con Life In a Day. Se il film di Iwai a un certo punto zoppica, rivela un certo disagio nella direzione degli attori, si lascia possedere da un simbolismo ingombrante con quella presenza impalpabile di una comunque splendida Amanda Plummer, questo succede all’interno di un esperimento coraggioso sulla mutazione dell’immagine contemporanea che merita rispetto e attenzione.