Victoria Mahoney debutta nel lungometraggio con Yelling to the sky, in concorso a Berlino 61; il film prodotto da Billy Mulligan, noto più che altro per aver contribuito alla produzione di un esperimento sgangherato e “scorretto” come Oral Fixation di Jack Cashill, vede tra gli interpreti Zoë Kravitz, figlia di Lenny Kravitz e Lisa Bonet, affiancata tra gli altri da Gabourey Sidibe, candidatura all’oscar per Precious.
Yelling to the sky non ha certo la veste truffaldina del film di Lee Daniels e riesce per certi versi a mantenere una distanza onesta tra i corpi e lo sguardo, disegnando uno spazio affettivo senza trucchi e avvicinandosi al ghetto con una prossimità molto diversa dall’ipertrofia contaminata di Spike Lee, siamo più dalle parti di Larry Clark senza che le posture fotografiche di questo sommergano la forza documentale delle immagini, osservate quasi sempre da una distanza pudica. La Mahoney racconta certamente in modo sentito un pezzo autobiografico, cercando nel nucleo di una famiglia mista la genesi di una violenza che si riverbera fuori dal nido come un cancro che muta la relazione tra identità e generi. E’ certamente uno sguardo femminile importante quello della Mahoney, proprio nel lavorare sull’assimilazione della violenza come eredità prevalentemente maschile con i mezzi di un racconto di formazione molto semplice e rovesciato. Quello che non convince, al di là dell’onestà degli intenti, è il modo in cui la regista Americana soffoca gli attori con un montaggio che sembra servirsi dell’ellisse come di una scorciatoia per eliminare i corpi; l’ambientazione familistica, intesa come spazio oscillante tra una ricerca estrema d’affetto e luogo principale di tutte le violenze potrebbe davvero far pensare ad una variante dell’universo Cassavetes, ma quello che non riesce a decollare nel film della Mahoney è questa persistenza stucchevole della camera a mano, utilizzata come fosse un occhio con un codice univoco, un vezzo stilistico che non si spinge mai in profondità, riuscendo raramente a relazionarsi con i corpi e, cedendo così a quel senso di distanza formale che più o meno affligge tutti i film dove la grande mano progressista di Robert Redford benedice e sostiene