Der freie Wille (2006) è la storia di uno stupratore seriale, interpretato da Jürgen Vogel, che tenta di redimersi mediante l’amore, fallisce, e muore. Nonostante le sue quasi tre ore di durata e il tema rovente e sdrucciolevole, ‘Il libero arbitrio’ è uno dei film più belli e strazianti della recente cinematografia tedesca, e dobbiamo la sua riuscita a Vogel e al suo storico sodale Matthias Glasner, regista e co-sceneggiatore insieme all’attore protagonista e a Judith Angerbauer. Der freie Wille è uno di quegli exploit capaci di forgiare un autore e di incoraggiare un’analisi a volo d’uccello sulla sua filmografia. Fino a quel momento Glasner aveva diretto alcune commedie sui generis, Die Mediocren (1994, una delle prime foto di gruppo del nuovissimo cinema tedesco) e Sexy Sadie (1996: stralunato omaggio in b/n a Rote Sonne di Rudolph Tome, 1968), e aveva fatto molta televisione. Soprattutto krimi. Un elemento, quello poliziesco e “nero”, sempre presente nel cinema di Glasner. Nel 2008, con This Is Love, il regista ha tentato una narrazione più tortuosa e delocalizzata, girando buona parte del film in Vietnam. E ora, con Gnade, questo nomadismo si raggela in quel di Hammerfest, in Norvegia, una dei centri abitati più vicini al polo nord.
Niels (Vogel) si trasferisce a Hammerfest per lavoro insieme alla moglie Maria (Birgit Minichmayr, indimenticabile in Alle anderen, 2009, di Maren Ade) e al figlio Markus (Henry Stange). Per loro dovrebbe essere un nuovo inizio, ma in realtà Niels non perde il vizio di tradire la moglie e Markus, sempre sulle sue, preferisce filmare il mondo che lo circonda con un telefonino invece di affrontare la vita di petto. Le cose cambiano quando Maria, inavvertitamente, investe un corpo nel buio innevato che si scoprirà essere quello di una ragazzina. In mancanza di testimoni, la coppia decide di non dire nulla a nessuno, ma alla lunga tenere il segreto diventa impossibile e possono solo sperare nella ‘grazia’ del titolo…
Raccontare una trama del genere sarebbe uno spoiler imperdonabile, se non fosse che la sceneggiatura di Kim Fupz Aakeson brancola per due ore e dodici minuti senza farsene granché. Non c’è tensione, e quella morale che scaturisce dal delitto involontario di Maria – con alcune aggravanti che non stiamo a enumerare – viene dissipata con una nonchalance che lascia, davvero, agghiacciati. E dire che il film avrebbe tutte le carte per funzionare, a cominciare da un setting mozzafiato ripreso nei sei mesi che vanno dalla notte polare alle notti bianche del solstizio estivo, cioè dall’eterna notte all’eterno giorno. Glasner adotta un formato “panoramico” di grande impatto e lancia in campo, oltre all’attore feticcio, un cast all’altezza e un’ambientazione, anche sociale, ricca di spunti. Un coro a cappella, l’hospice in cui lavora Maria (ebbene sì: proprio lei, abituata a confortare i malati terminali, si trasforma in un’assassina senza spina dorsale), la “crudele” scuola media frequentata da Markus. La pellicola spreca un’occasione dopo l’altra, propina almeno una scena improbabile e i personaggi restano come stalagmiti di ghiaccio appese a una tettoia. In poche parole, la tragedia c’è ma non si vede. Un fallimento di questo portata, più che richiamare gli strumenti della stroncatura, genera sgomento. E quando le ultime immagini, viste con gli occhi di Markus, sprofondano nello schermo mostrando la sagoma di uno smartphone, c’è pure la sgradevole sensazione della pubblicità occulta. Alla luce di Gnade, Der freie Wille sembra davvero l’ultima frontiera prima dello smarrimento.