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Berlinale 62 – Concorso – Jayne Mansfield’s car di Billy Bob Thornton (USA, 2012)

Jayne Mansfield’s car, presentato in concorso alla Berlinale 62, è la quarta esperienza alla regia da parte di Billy Bob Thornton. Ambientata in Alabama nel 1969, la pellicola tratta la vicenda di due famiglie, una americana e l’altra inglese, che loro malgrado devono relazionarsi. Ad accomunarle è la morte di Naomi, una donna americana che era fuggita per rifarsi una vita in Inghilterra e che per tanti anni non aveva dato sue notizie. Avendo espresso il desiderio di essere sepolta nella terra d’origine, costringe le due famiglie a un incontro quanto mai deprecabile. Con l’odio e il disprezzo tra i due vecchi capifamiglia a fare da sfondo, ci sono infatti due mondi agli antipodi che si fronteggiano: da un lato l’aplomb verboso dei figli inglesi di Naomi, dall’altra le pruderie provinciali dei suoi quattro figli americani. Eppure, riuniti nel ricordo di questa donna, cominceranno a confrontarsi fino a scoprirsi non molto simili, ma almeno compatibili. A giudicare da questi pochi cenni, il film di Thornton potrebbe essere facilmente inquadrato:  un dramma familiare allargato che oscilla tra facili cliché e l’etica del perdono. Del resto il regista è stato chiaro anche in conferenza stampa: alla domanda esplicita sul senso del film, ha risposto “il romanticismo della tragedia”. Una risposta solo apparentemente elusiva. Non manca infatti il dramma, ma in proporzioni molto più ampie: Thornton realizza infatti un documento dell’identità americana alla fine anni 60; rappresenta un paese profondamente segnato dal trauma della guerra che si perde tra miti del passato e crisi dei valori. Non manca neanche il sentimento, che però da genuino diventa malato: così accade che tra i fratellastri si sviluppa un affetto che poi degenera fino a sfociare nell’incesto. Eppure ciò che rende l’analisi di Thornton tanto brillante è la compenetrazione degli aspetti trattati. Non c’è infatti solo la differenza culturale tra due paesi, ma anche e soprattutto il conflitto generazionale in atto tra i personaggi. A partire dai due padri, eroi della grande guerra, passando per i figli, reduci della seconda guerra mondiale, per arrivare ai nipoti, di lì a poco chiamati ad partire per il Vietnam, Thornton disamina lo scorrere del tempo e il suo effetto sulle persone. Il risultato è una crisi comunicativa che porta padri e figli a scontrarsi, oppure a trovare forme alternative di dialogo. Come nel caso di Jim, il capofamiglia americano, che passa il suo tempo collegato alla radio della polizia per poi precipitarsi sulla scena degli incidenti automobilistici: rimane per ore ad osservare rottami e cadaveri rigorosamente in silenzio. Proprio quest’ultimo aspetto della vicenda offre un’altra chiave di lettura del film. Jayne Mansfield’s car è infatti caratterizzato da una forte componente autobiografica. Nonostante la maggior parte degli elementi della storia siano fizionali, l’ambientazione nel sud degli Stati Uniti e la drammatizzazione del rapporto col padre (interpretato, come in Lama tagliente del 1996, da Robert Duvall) sono parte del vissuto di Billy Bob Thornton. Questi sceglie un sistema di rappresentazione classicamente americano: una vicenda articolata ma ben leggibile, lunghi commenti musicali (tra roots rock e blues) e inquadrature che si perdono all’orizzonte, tra campi di grano e motel alla Edward Hopper. Tipico dell’autoreferenzialità americana, il manierismo della regia ha una funzione destrutturante: non è racconto nostalgico, ma uno strumento d’analisi. Con un occhio di riguardo ai temi cari alla New Hollywood, Thornton offre una nuova testimonianza nell’annosa diatriba sulle contraddizioni della società americana.

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