Il cinema del Qubechiano Kim Nguyen, pur attraverso un evidente eclettismo di natura anche produttiva, insegue l’immagine di una realtà extrasensibile sin dal suo esordio nel 2002, quel Le Marais ambientato nell’Europa dell’est del XIX secolo rappresentata come luogo impossibile attraversato da una corrente sotterranea di tipo quasi cultuale. Lo stesso si può dire di Truffe, girato nel 2008, vincitore al festival Fantasia di Montreal nello stesso anno, film ondivago, trascinato da una flaneurie incessante e psicotropa nascosta dentro l’involucro di una fantascienza chiusa e distopica. La citè, il film più recente di Nguyen prima della realizzazione di Rebelle, è il primo progetto esplicitamente Africano del regista Canadese, è ambientato nella Tunisia del 1895, realizzato con un budget molto più alto dei suoi precedenti film e mette in relazione lo spazio rituale con quello di una città colonizzata attraverso l’isolamento e l’orrore creato da un’endemia che riconfigura la percezione del villaggio. Da questa prospettiva, l’Africa di Rebelle è allora un’Africa molto distante da quella astratta e pesantemente simbolica del film di Alain Gomis in concorso qui a Berlino 62, ma mantiene le caratteristiche di una ricerca dell’invisibile che è più interessata a delineare un’immagine forte dello spirito che a localizzare solo politicamente il racconto. Rebelle è girato in Congo ed è attraversato dai suoni della musica Angolana, un riferimento ritmico e rituale che non abbandona mai il film anche nei momenti più duri. Komona viene catturata dai ribelli e costretta a uccidere i suoi genitori; dai suoi dodici anni fino ai quattordici sarà educata alla guerra, in un percorso che imboccherà molteplici direzioni, fino al viaggio finale verso il luogo primigenio del massacro, alla ricerca di quello che rimane dei suoi genitori per offrir loro una degna sepoltura. La caratteristica del cinema “deambulante” di Nguyen è fortemente presente anche in Rebelle, dopo un prologo che sembra quasi entrare brutalmente in quello spazio che preme ai margini del bellissimo White Material di Claire Denis, si innestano verticalmente le tracce di un patrimonio religioso che è strumento di conoscenza profonda del mondo; senza cadere nella trappola di farne un saggio di antropologia visuale, Nguyen si avvicina per certi versi alla ricerca libera di Elemire Zolla in quella ricerca di un anima mundi che possa restituirci un’immagine dell’Africa anti retorica. Se da una parte il rischio è quello sempre presente di azzeramento dell’esperienza cinematografica in un rincorrersi di simboli che potrebbero equivocare lo stupore dell’epifania magica con un esotismo ingombrante e in grado di rendere “in-significanti” le immagini, Nguyen sceglie invece la strada della semplicità popolare, dipinge i corpi dei morti che Komona è in grado di vedere con i colori delle performance rituali, tenendosi vicino a quelle che in fondo sono le forme di rappresentazione di una cultura. Si faceva accenno all’utilizzo della musica Angolana; Nguyen ne sceglie un frammento che va dal 1968 al 1978 ovvero tutto il periodo legato alla lotta per l’indipendenza; è una sovrapposizione storica che non ha sempre e comunque un riferimento visivo diretto in Rebelle, ma che serve al regista Canadese per costruire un testo politico complesso; Nguyen sceglie una musica fortemente apolide e contaminata anche nel contesto musicale Africano, gruppi di musicisti come i Ngoleiros do Ritmo e i Bongos, i Kiezos e i Gingas, i Jovens do Prendo, segnavano uno strano crocevia; tra interpolazioni rock, samba ed elementi di rumba congolese, si trattava di una musica molto vicina allo spirito indipendentista ma che allo stesso tempo nasceva grazie anche alla politica contradditoria di Salazar che per un certo periodo (dopo i primi anni 60) aveva favorito lo sviluppo delle culture indigene. Rebelle, anche in questo senso, restituisce l’immagine di un’Africa non riconciliata e definita da molte stratificazioni.