Torna alle origini Benedek Fliegauf, girando in Ungheria dopo la parentesi di Womb, film in lingua Inglese ambientato nella costa nord della Germania. Collabora nuovamente con Zoltan Lovasi, direttore della fotografia per il suo primo lungometraggio, Forest, e cura direttamente il sound design, fino a Dealer aspetto cruciale del suo cinema interrotto solamente dall’approccio più tradizionalmente contemporaneista di Max Richter, autore delle musiche per Womb.
Ispirato ad una serie di eventi occorsi in Ungheria tra il 2008 e il 2009 dove più di una cinquantina di persone appartenenti alla comunità Rumena furono ferite e uccise con una serie di attacchi sistematici perpetrati dall’estrema destra, Just The wind penetra uno spazio indicibile che non è più solamente l’esasperazione dell’organico come rivelazione del reale in Dealer o la continuità tra decomposizione e vita nella relazione partenogenetica di Womb, ma è una trasformazione ulteriore di questa difficile convivenza tra spazio “reale” e corpo privato in sguardo duramente politico.
Non che il cinema precendente di Fliegauf se ne fosse tenuto a distanza fino ad ora, tutt’altro, ma se le accuse più frequenti da parte di una critica a rischio distrazione, erano quelle che identificavano nel cinema del regista Ungherese un formalismo spinto al massimo, probabilmente dopo la visione di Milky Way, esperimento tra i meno significativi di Fliegauf e che isola in buona sostanza la tendenza a lavorare con variazioni sonore ed elementi spaziali su un piano fortemente concettuale, i detrattori potrebbero mettersi l’animo in pace dopo la visione di Just the wind, a meno di non scendere a patti con le conseguenze della pigrizia o della cattiva fede, “qualità” che impediscono quasi sempre di esaminare l’opera di un’autore come un sistema dinamico.
Fliegauf entra dentro lo spazio comunitario Rumeno e ne condivide una soggettiva che può essere considerata privilegiata a patto di intenderla in senso immersivo. Un percorso indubbiamente claustrofobico ma che vive all’interno di una dimensione sensoriale che disinnesca progressivamente le trappole di una visione preordinata. Per il regista Ungherese in questo caso si trattava di farsi vittima, assumere la prospettiva più scomoda del punto di vista, quella dell’essere già morti come slittamento progressivo da una percezione esistenziale legata sostanzialmente al vedersi nel processo di trasformazione che porta alla putrescenza (Dealer, Womb) ad una negazione dell’esistente imposta brutalmente da uno sguardo esterno, un potere intangibile che ancora non assume contorni chiarissimi, ma emergendo sotto forma di metastasi, minaccia un’intera collettività.
Fliegauf lavora certamente su numerosi piani e sarebbe difficile raccogliere tutti gli stimoli nello spazio di una recensione, basterà riferirsi ad un uso sorprendente della visione periferica, che è qualcosa di più di un cinema “semplicemente” ellittico, è in questo caso la restituzione di una malattia degenerativa che colpisce l’intera Europa e che viene intravista, si manifesta ai margini dell’inquadratura, lascia tracce di violenza di cui non ne conosciamo l’origine, segna il confine che ci separa da un massacro non visto con l’immagine fuori fuoco di un transennamento per la messa in sicurezza di un’area, è la tumulazione di un maiale morto, ultima eredità di una famiglia sterminata e che ricorda da vicino la pulsione escrementizia di Dealer e l’allevamento di scarafaggi in Womb, è uno stupro annunciato che allude ad un altro consumato in precedenza e con un movimento palindromo opposto, sono i fori che crivellano un cranio visto sotto forma di immagine su google e che saranno visibili sui corpi dopo la mattanza.
A questa discesa spiraliforme, Fliegauf applica un lavoro sul suono e sulla musica in parte vicino agli esperimenti dronici sul rumore bianco che scolpiscono sonicamente le immagini di Dealer, ma con un’elaborazione in direzione acusmatica; il drone infinito e sottile che perfora tutto il film oscilla, grazie all’introduzione di alcuni strumenti appartenenti alla tradizione Rumena, tra le tracce di una cultura e la sua distruzione, è uno scollamento tra suono e territorio, una propensione anti sinestetica che dovrebbe (in caso) dissipare ancora una volta le accuse di formalismo; è il rumore inudibile dell’apocalisse.
In mezzo a tutta questa morte, Fliegauf lavora in modo magistrale sull’ambivalenza degli adolescenti, sui loro volti e sui loro corpi si rovescia naturalmente la sottile tentazione della morte (le ragazzine Gothic che avvicinano Anna a scuola) lo stupore della natura (le bellissime sequenze con la “piccola principessa”), la scoperta dell’orrore che sostituisce la meraviglia. E’ un cinema disperato quello di Bence Fliegauf ma come quello di Teresa Villaverde, entra in un doloroso stato di Transe per raccontare il volto di un’altra Europa.