Our Homeland è il primo film diretto da Yang Yonghi a scegliere il formato di una drammatizzazione più tradizionale e a prender vita proprio in quello spazio che rende fortunatamente indistinguibile la distanza tra finzione e documentario, differenza a cui non crediamo affatto se non nel modo in cui i due “mondi” riescono a rivelarsi di volta in volta permeabili. L’ultimo lavoro della regista di origini Coreane ma residente in Giappone da due generazioni, prende le mosse dalle tracce intime raccolte nel corso di dieci anni e organizzate nel suo primo film prodotto nel 2005; Dear Pyongyang è un documento famigliare e storico che si avvicinerà ad una forma ancora più soggettiva e ravvicinata nel successivo Sona, the Other Myself, completato cinque anni dopo. Entrambi sono documentari in un’accezione quasi Markeriana, ovvero osservano la Storia collettiva nel momento in cui si manifesta sotto forma di riflesso attraverso il dispositivo mnemonico famigliare. Natura dell’immagine che diventa politica proprio in virtù di una transitorietà legata anche a tutta l’esperienza di Chongryon, l’associazione dei residenti Coreani in Giappone di cui hanno fatto parte i genitori della stessa Yang Yonghi e che occupa uno spazio liminale tra un’ambasciata non riconosciuta e il sistema di controllo di un regime sulla vita minima dei suoi cittadini apolidi. Our Homeland evidenzia questa spaccatura ripercorrendo le tracce di un tempo perduto con un “Nostos” svuotato da qualsiasi epica; Sonho torna dalla Corea del Nord per visitare la famiglia residente in Giappone, dopo 25 anni di assenza, è un fantasma che non può riappropriarsi dei ricordi, separati come sono da una percezione plumbea e inesorabile del tempo. Se Yang Yonghi racconta l’intrusione di un regime nella vita privata degli individui disseminando tracce minime, cicatrici sui volti, il manifestarsi di una malattia degenerativa, lo fa rendendo inestricabile il senso di appartenenza alla terra. Mentre Rie, la sorella di Sonho interpretata da una splendida Ando Sakura (Love Exposure) e rimasta con i genitori in Giappone, si oppone con tutte le sue forze all’impatto disgregante di un potere politico che irrompe nel suo spazio privato attraverso il corpo malato del fratello, Sonho è un soggetto in transito che non può trovare collocazione in quel recinto di libertà che il Giappone potrebbe riconoscergli solamente opacizzando la relazione con le sue radici. Con un’aderenza leggera ai segni della realtà che in parte ricorda il cinema di Kore-Eda Hirokazu, Yang Yonghi filma lo spazio dolorosamente eterotopo di una terra di nessuno, quello di una cittadina tra due mondi impermeabili.