Gli Anvil hanno una voce tutta per loro nelle principali enciclopedie sulla storia del rock. Agli inzi degli anni 80’ erano considerati tra le incarnazioni più pure e imitate di una scena rock-metal che avrebbe fatto da colonna sonora all’intero decennio. Nel 1984, al megaraduno Super Rock in Japan, avevano infiammato palmi e gole di una folla adorante, facendo sfigurare compagni di tour come Bon Jovi, Scorpions e WhiteSnake a forza di rullate assordanti e assoli per chitarra e vibratore. È buffo come l’immortalità possa coesistere con l’oblio: considerati dei veri numi tutelari dai propri milionari colleghi, Lips e Robb, i superstiti di quel sogno di chiome agitate e timpani infranti, si risvegliano ogni giorno nel corpo di due cinquantenni, alle prese con debiti, lavori umili e famiglie da trascinare faticosamente a fine mese. Malgrado tutto, nella loro nevosa Toronto, continuano ad incidere dischi e far urlare le chitarre per un esagitato gruppetto di fan, inseguendo con tenacia adolescenziale l’affermazione definitiva che i paradossi dell’industria discografica hanno sempre negato loro. Sacha Gervasi, sceneggiatore hollywoodiano di successo con un vividissimo passato da roadie nei concerti metal, pedina i propri idoli di gioventù attraverso peripezie degne della sceneggiatura più ironica e crudele: impagabile, tra i vari episodi, il fallimentare tour europeo agli ordini di una tour-manager italiana volenterosamente incapace. Il risultato è una sorprendente parabola umana e sentimental, impregnata di epos musicale , attitudine demenziale e riscatto sociale, crasi in carne ed ossa di due cult del connubio cinema e rock come This Is Spinal Tap e Still Crazy. Ma a vedere il cantante e chitarrista Lips raccogliere la lunga chioma in una bandana per andare a lavorare in una mensa scolastica non si può non pensare al Randy “the Ram” di Rourke e Aronofsky, intrappolato nel la bolla atemporale del suo quarto d’ora di gloria e degli ultimi, sfavillanti e decadenti respiri del sogno americano. Pur sostenuto da una produzione tutt’altro che povera, The Story of Anvil si alimenta soprattutto dell’innegabile spessore tragico dei suoi protagonisti: infantili, cocciuti, talentuosi, perseguitati dalla sfortuna e guidati da un’ ostinazione donchisciottesca che li colloca in perenne bilico tra il ridicolo e la fiera resistenza agli eventi avversi. Bisogna ringraziare il Biografilm Festival di Bologna per la prima proiezione italiana in sala di quello che due anni fa, dopo aver mietuto applausi dalle platee del Sundance e di un’altra dozzina di festival minori, è stato uno dei più sorprendenti fenomeni cinematografici al botteghino dei mercati occidentali. Nell’estate del 2009 era sembrato che dovesse giungere anche nelle sale Italiane, ma le buone intenzioni sono rimaste tali. Ed eccoci qui, ancora una volta, ad annoiarci da soli con la lista di probabili motivazioni che hanno fatto affondare un prodotto dall’appeal innegabile nelle sabbie mobili distributive di un’industria dai meccanismi sempre meno limpidi (Per i poveri Anvil, nonostante l’inaspettata rivalsa, la storia sembra in qualche modo ripetersi). Sfiducia verso il cinema documentario? Basta dare un’occhiata al film per rendersi conto della struttura melodrammatica fortemente ancorata alla narrazione finzionale. Mancanza di pubblico interessato? Oltre che all’enorme e affidabile nicchia di appassionati di rock e metal, ci sentiamo di appellarci anche al rumore scatenato dal film in rete ed alla limpida, smaccata trasversalità dovuta ad una storia coinvolgente anche per i meno appassionati. Precedenza accordata a prodotti di migliore fattura e vendibilità? Basta guardare alle uscite estive, sempre più spesso storpiate nei titoli e dal doppiaggio per risultare appetibili, per capire che si tratta di un alibi che non regge. Paura per le due censurabilissime (e comunque divertentissime) bestemmie in italiano urlate dalla suddetta manager incapace? Ci auguriamo davvero di no. Ennesimo verdetto affidato al vento delle autostrade telematiche: si tratta di palese miopia e di sfiducia nelle capacità critiche del pubblico, trattato sempre più come una massa indistinta di minus habens da ingannare e assecondare nel suo presunto cattivo gusto.