Ne Il Casinista di Pier Francesco Pingitore (1980), un Montagnani artaudiano, attore comico in crisi, attacca violentemente a suon di sberle l’autore dei suoi sketch, uno stralunato Pippo Franco, incapace a suo dire di rapportarsi con la contemporaneità; di riuscire a riaggiornarsi ai nuovi parametri della comicità; di riformulare i tempi comici sull’osservazione del reale, della quotidianità; d’applicare cioè la lezione ‘dei Moretti, dei Nichetti e dei Verdone… e perché no anche dei Woody Allen!’. Seppure da un’angolazione che si potrebbe dire reazionaria, Pingitore fotografa con mano pesante ma al meglio e dall’interno, la crisi profonda di un cinema condannato a scomparire. Un cinema dalle radici ben salde nella tradizione dell’avanspettacolo che, paradossalmente, godendo del clima culturale e quindi dell’allargamento delle maglie della censura, convisse con il decennio di piombo a colpi di battute da caserma, dottoresse e insegnanti promiscue, tentando di descrivere un mondo a lui poco comprensibile attraverso una lente appannata ed obsoleta, e che, sempre paradossalmente, si spense anch’esso del tutto con l’epoca del riflusso. Un cinema che non riuscì mai a rappresentare il violento scontro generazionale in atto o la profonda trasformazione del concetto stesso di giovane se non in forma di sberleffo. E, va detto che anche il cinema più “serio” riuscì a cogliere poco il profondo mutamento sociale in fieri (De Seta, Grifi). Ed è in questa assenza di rappresentazione che si sviluppa il cinema dei Moretti, Nichetti, Nuti, Troisi, Benigni, Benvenuti. E Verdone, appunto, che fra tutti è di certo il più classico (il passaggio di consegne tra Sordi e lui in In Viaggio Con Papà è emblematico, in questo senso). Un cinema che parla della ed alla sua stessa generazione per la prima volta.
Premessa prolissa ma necessaria per dare la giusta collocazione ad un film, leggero, lieve, ma molto attento nel fotografare la realtà giovanile, soprattutto romana, della sua epoca, di cui riesce a restituire, pur filtrato dallo spettro della commedia, uno spaccato credibile e partecipe (la riunione a casa di Nadia spesa in ingenue mitomanie: Renato (Zero) c’ha provato pure con me!). Perchè Borotalco mette in scena proprio lo spaesamento, ad un passo dall’alienazione, di una generazione che dopo aver messo in discussione i valori dei padri, non è riuscita, o forse, meglio, non ha avuto gli adeguati strumenti per reinventare la società migliore che auspicava ed è finita per convincersi che, per dirla con Finardi: tutto quel cantare di cambiar la situazione non sia stato che un sogno, un illusione. La generazione dei trentenni, ora depoliticizzati, che si adatta malamente ma giocoforza alle regole imposte dalla società borghese (l’università, il lavoro, il matrimonio, la famiglia, le responsabilità) tentando, al più invano, di resistere attraverso il gioco, al prolungato attaccamento alla propria adolescenza. Qualcosa di vicino ai vitelloni felliniani o agli Amici Miei di Monicelli, ma con un carico di sconfitte post-ideologiche se possibile ancora più doloroso.
Borotalco è per tanti versi il Verdone movie per definizione, quello che traccerà le coordinate del suo cinema a venire. Qui per la prima volta, l’attore e regista, lascia le maschere paradossali (ed epocali) del bullo, dell’hippie, dell’impiegato col borsello, di Mimmo, Furio ed Ametrana di Un Sacco Bello e Bianco, Rosso e Verdone, maturate nelle apparizioni televisive di Non Stop, e riformula la sua comicità assecondandola ad una trama più strutturata, poggiata sui toni della commedia brillante, ma anche più attenta a cogliere quelle sfumature malinconiche che i tempi portavano con loro e che sarà caratteristica proprio di tutto il Verdone successivo (in Bianco, Rosso e Verdone, però, certi elementi erano già ben presenti, come l’episodio con la nonna che è addirittura struggente).
La scrittura qui tocca livelli altissimi, con la definizione di personaggi di rara incisività, entrati prepotentemente nella storia della commedia italiana. Il Mario Brega, uomo ovunque del cinema nostrano (da Per Un Pugno Di Dollari a Vacanze Di Natale, da La Marcia Su Roma ad Amarsi un po’), suocero coatto, greve ed intimidatorio, è un miracolo popolaresco realmente inarrivabile. Angelo Infanti straordinario nel dare spessore, con passione e credibilità, ad una figura che è puro paradosso gassmaniano: elegante e cafone, comico e tragico, sensuale e cialtrone. Uno splendido corpo cinematografico come Christian De Sica (a cui Verdone ha regalato due dei migliori personaggi di tutta la sua, purtroppo troppo spesso scellerata, carriera: Marcello di Borotalco ed il suo equivalente adulto Tony Brando di Compagni Di Scuola) inarrivabile cantantucolo con velleità da musical. Per non dire della Giorgi spumeggiante e solare, distante anni luce, quasi irriconoscibile, dalle morbosità dei film che l’avevano lanciata poco più che adolescente (tipo Storia Di Una Monaca Di Clausura o Disposta A Tutto) e di personaggi di contorno come la bravissima Isa Gallinelli (l’amica di Nadia innamorata di Burt, con la u, Reynolds).
Poi c’è il Verdone attore, gigione quanto si vuole ma mostruosamente bravo, capace in un attimo di passare attraverso mille sfumature diverse, dal melò al grottesco, quasi incarnando e sintetizzando nel solo personaggio di Sergio gli umori percorsi dall’intera pellicola. Che è ancora una riflessione metafilmica sulla maschera, sul travestimento, sul senso del cinema come specchio deformante della realtà. Tema molto caro a Verdone, che lo ha riproposto insistentemente almeno fino a Troppo Forte, tentando poi di riprenderlo ma con esiti tutt’altro che positivi, pur se d’immenso successo, com’è noto, anche in tempi più recenti (Viaggi Di Nozze, Gallo Cedrone, Grande, Grosso E Verdone). C’è il Verdone autore, con Enrico Oldoini, di una storia senza pretese (eterea come una nuvola di talco, dice lui stesso) ma davvero gravida di battute da manuale, da imparare a memoria, entrate e sedimentate nell’immaginario e nel linguaggio collettivi (le olive greche, il cargo battente bandiera liberiana, John Wayne frocio). Ed il Verdone regista, tutt’altro che virtuoso, ma capace di orchestrare egregiamente un mosaico così composito e letteralmente esplosivo e di donare luce anche ai personaggi minori (il prete).
Borotalco è anche, per tanti versi, il film di Lucio Dalla. Autentico convitato di pietra, mai in scena (se non in una fugace ripresa live) ma ugualmente presente in spirito; orientando i percorsi narrativi, facendo da elemento cardine; sottolineando e commentando con le sue canzoni diverse sequenze del film (il diario, la roulotte). Le musiche originali sono invece di Fabio Liberatori e degli Stadio. Continuamente nominato, soprattutto da Nadia, che è una sua fan scatenata e che tramite Sergio Benvenuti/Manuel Fantoni vorrebbe arrivare a conoscerlo, presente in foto e nei manifesti, il cantante bolognese trova in Borotalco il tributo all’enorme successo che ne aveva baciato la carriera in quel periodo. Da par suo, Verdone, trova nella dallamania il sostrato culturale, pop, dei suoi personaggi, dei suoi giovani, stabilendo tra i suoi brani e le immagini del film, un rapporto strettissimo ed intimo. Tanto che, per assurdo, è proprio Borotalco il film che comunemente si lega all’immagine del cantautore, più delle pellicole che ha realmente interpretato (I Sovversivi dei Taviani).
Lo stato di grazia che avvolge l’intero lavoro riconsegna un piccolo gioiello, che pur così legato alla sua contemporaneità, riesce ancora ad apparire, oggi come allora, fresco ed appassionante. E misteriosamente attuale anche a trent’anni di distanza.
L’edizione in blu-ray presenta il film nel formato cinematografico originale, con i colori abbastanza puliti e brillanti (forse anche troppo, in ogni caso lontani dalla versione televisiva). Senza difetti l’audio digitale in stereo 2.0. Scarso, invece, l’apparato extra, che però può vantare una lunga e bella intervista a Carlo Verdone curata da Luca Giannelli, in cui l’attore romano racconta, con trasporto ed affetto, nel suo modo sempre coinvolgente, aneddoti e curiosità sulla lavorazione del film.