Comincia domani, venerdì 30 Novembre, la XXXIV edizione del Festival Internazionale di Cinema e Donne, inserita nel più ampio contenitore della “50 Giorni di Cinema Internazionale a Firenze”. Il festival Internazionale di Cinema e Donne diretto da Paola Paoli e Maresa D’Arcangelo è uno dei più “antichi” tra quelli fiorentini, occasione per incontrare un cinema militante nel senso più ampio del termine e “non riconciliato”. L’evento che introduce la programmazione è previsto per domani, Venerdi 30 alle ore 10.00 presso il Palazzo Vecchio, Sala D’Armi, con il XV Sigillo della Pace conferito alla regista serba Aida Begić che con Djeca realizza il suo terzo lungometraggio e quello che le ha permesso di essere conosciuta a livello internazionale; il film passato per Cannes 65 nella sezione Un Certain Regard ha ottenuto il premio speciale della giuria, ha recentemente vinto la 48ma edizione del Festival di Pesaro ed in questi giorni è stato inserito nella sezione TorinoFilmLab del Torino Film Festival 2012. Djeca, il cui titolo internazionale è “Children of Sarajevo”, lo si potrà vedere anche in Italia, regolarmente distribuito a partire dal 1 gennaio del prossimo anno, con il titolo di “Buon anno Sarajevo“, la distribuzione che se ne occuperà sarà la Kitchen Film di Emanuela Piovano, all’interno di una “collana” chiamata “Cinema UHT”. Buon Anno Sarajevo sarà proiettato, alla presenza della regista, alle 21:00 di Venerdi 30 presso il cinema Odeon di Firenze.
Nella Sarajevo post-bellica Rahima e il fratello adolescente Nedim, orfani di entrambi i genitori, vivono grazie al lavoro della giovane donna, impiegata in un ristorante della città. Convertita all’Islam, Rahima viene pedinata dalla macchina da presa della Bejic in una fulgida compostezza fatta di movimenti minimi, una resistenza personale attraverso la fede che, oltre a ripercorrere le scelte personali della regista, evidenzia i contrasti di una terra nel suo più feroce periodo di crisi. Marija Pikic (Rahima) che non è Musulmana come la Begić, non conoscendo cosi da vicino le circostanze che si sono verificate a SaraJevo, alcuni mesi prima delle riprese ha studiato molto per preparare il suo personaggio con un sostegno molto forte da parte della regista. In questo modo entra a contatto con molti orfani di Sarajevo e va a visitare tutte quelle istituzioni sociali dove sono alloggiati. La Begic aiuta Marija ad assimilare alcune cose fondamentali, insegnandole come indossare il velo con naturalezza cosi da farne una parte di se. La storia sullo sfondo è quella di una ragazza ribelle che in passato, nel corso degli anni del liceo, ha causato molti problemi all’istituzione sociale dove è cresciuta insieme al fratello, nel film ci sono alcuni incontri tra Rahima e un ragazzo drogato senza che lo spettatore sia informato con riferimenti specifici relativi al loro passato, ma la cui collocazione allude agli anni di formazione della ragazza, e alle strade opposte che i due ragazzi hanno deciso di intraprendere. Rahima sceglie la via religiosa in modo da poter dimostrare sia al fratello sia all’assistente sociale un cambiamento importante nella sua vita. La Begic insiste molto sul velo come simbolo forte di un rifiuto, quello del peccato e di una realtà “mondana” foriera di morte, per Rahima questa scelta è un esempio per gli altri. In Djeca la materia politica si manifesta attraverso le dinamiche relazionali, quasi sempre regolate dalla persistenza della merce; sarà l’iphone di un compagno del fratello, spaccato dallo stesso Nedim durante un litigio, ad innescare l’incessante peregrinare di Rahima alla ricerca del denaro necessario per riparare il torto. La Bejic segue con la prossimità del piano sequenza la performance di una splendida Marija Pikic, ma disinnesca ogni escatologia Dardenniana rivelando una città abitata da fantasmi e colta in uno stato transizionale ricco di tensioni; Rahima si sorprende spesso in luoghi bui, dai contorni incerti, popolati da corpi in conflitto; invece di caricare lo spazio di segni inequivocabili la Bejic sdoppia costantemente i percorsi possibili cogliendone la forma più ambigua; è nei momenti apparentemente privi di uscita che Rahima sperimenta la forza potenziale del gesto, aggiustandosi il foulard che le copre i capelli, e liberandoli improvvisamente; trovandosi in mezzo ai festeggiamenti di un capodanno popolato da soli bambini, filmato dalla regista Bosniaca in modo da rendere palpabili le ferite più dolorose causate dalla guerra; scomparendo con il fratello in mezzo ad una coltre di fumo in un’immagine di potentissimo “realismo astratto”, conferma della forza di un piccolo, sorprendente film condotto sul confine del visibile, tra speranza e apocalisse.