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Ca’ Foscari short film festival 2011, prima giornata

Parte il primo concorso internazionale di corti indetto da un ateneo universitario: Ca’ Foscari Short Film Festival. Ad inaugurare la giornata, la sezione Scuole del Veneto, entro la quale sono stati raggruppati  progetti di interesse sociale frutto della collaborazione di studenti e professori. Presentando uno spaccato di vita quotidiana di un istituto, Sabina va a scuola (diretto da Guendalina Gallo) suggella con semplicità ed efficacia quei piccoli gesti utili al risparmio delle varie risorse, i quali dovrebbero diventare abitudini fra tutti i giovani.  La seconda pellicola della categoria è Progetto m.o.s.e., quando tra dire e fare c’è di mezzo il mare, di A. Grandi, M. Roverso, M. Tirapelle, sorta di documentario-inchiesta dal titolo simpaticamente polemico, sull’annosa questione veneziana riguardante il progetto di prevenzione degli allagamenti nella città lagunare. Una voce off accompagnata da un collage di panoramiche e materiale di repertorio, spiega le varie problematiche dell’innalzamento del livello di marea e dei relativi danni economici, sociali ed ambientali provocati dall’incursione di acqua nel centro storico. Si gioca con le immagini da cartolina per sfatare il mito turistico di Venezia-città-romantica, riportando lo sguardo alla realtà concreta degli eventi. Ai modelli tridimensionali ed ai grafici che illustrano il funzionamento delle paratoie  mobili del Mose, si alternano le testimonianze di cittadini ed esperti di ingegneria. Al Quds, sandwish falafel ma kulsci di Marco Augelli , già fregiato del Premio Pasinetti per “ l’aver affrontato il delicato tema dell’integrazione”,  sovrappone i tremendi racconti di un immigrato palestinese fuggito dalle zone di guerra, alle immagini di un tavolo con riuniti i membri della classica famigliola borghese, la cui quiete è interrotta dall’insofferenza della figlia che si alza e va a scrivere su di un muro uno slogan di denuncia contro l’indifferenza verso gli stranieri. Certamente acerbo nel linguaggio ma pieno di passione e vitale interesse per le questioni oggigiorno cruciali nella nostra società. Si arriva poi al corto a sorpresa  del festival. Diretto da Roberto Franzin, professore di lettere presso l’istituto penale per minori di Treviso, Inediti legami è un progetto che si prefigge di interpretare una serie di opere d’arte attraverso il corpo dei giovani detenuti. Siamo dalle parti del teatro d’avanguardia; le inquadrature ravvicinate si soffermano sul gesto, enfatizzano la tensione delle superfici muscolari, indagano sui volti mascherati chissà da quale colpa, utilizzando come referenti dei capolavori dell’ellenismo, del manierismo, dell’espressionismo e dell’anticlassicismo in genere. Inutile dire che il film trasuda il dramma delle storie che questi ragazzi si portano dietro, riflesse  proprio in quel tormentoso movimento di corpi, tagliato da luci livide o color seppia. “I ragazzi stessi non credevano neppure alla loro bravura vedendosi allo schermo. Il mio compito sta proprio nel convincerli che c’è qualcosa di buono anche in loro”- afferma il regista. Un buon esempio di come la sensibilizzazione verso un tema sia ben più efficace se espressa con nerbo e freschezza creativa. E’ la volta poi delle opere del concorso internazionale. Inizia Kubeldzis con il suo A date, il più corto dei corti in gara (1.30 min), specie di simpatico scherzo basato sulle incertezze d’approccio del maschio nei confronti del gentil sesso. Il brasiliano Barros (Todo silencio me incomoda) invece sceglie la via della poesia e filma un pesce dentro una boccia di vetro che mano a mano viene inghiottita dalla marea che avanza sul bagnasciuga. Minimalismo fatto di lunghe sequenze e fragore di onde in sottofondo, per un elogio della libertà che colpisce per grazia e levità. Con Red Road si passa decisamente ad una produzione dalla ampia gamma di mezzi e dal budget consistente. Molti i nomi coinvolti nella realizzazione della pellicola. Lo schermo è inteso come una tela pronta per sperimentazioni cromatiche ed elaborazioni grafiche volte a (de)costruire un incubo urbano nel quale s’innestano dimensioni parallele dove corpo e materia s’infiammano, si sciolgono ed infine vengono simbolicamente ri-concepiti nel grembo di una donna in abito rosso, su sfondo dello stesso colore. A far da traino, una fotografia contrastata, tonalità scure ed un notevole lavoro di mixaggio audio con distorsioni sonore  inquietanti: visivamente straordinario. Maggior interesse narrativo invece per My education dell’americana Iris Helfer, insolita storia famigliare che guarda a Loach e ai Dardenne. Un madre senza polso cerca in tutti i modi di far rigare dritto il figlioletto scavezzacolli. Ma c’è un’altra donna a delegittimarla dal ruolo genitoriale: la di lei madre. Più che un corto un vero e proprio provino per un lungometraggio, dato il  buon grado di controllo espressivo. Ed è proprio la sensazione che sia la parte di un progetto di più ampio respiro a nuocere a questo lavoro, che rimane comunque molto interessante. Arriviamo al film del giorno: Onde. Girato da una serie di giovani registi della Scuola di Cinema di Grosseto, è ispirato ad un segmento  del “romanzo di racconti” Olive Kitteridge, della statunitense Elisabeth Strout. Un ragazzo si reca al paese natale per farla finita. Incontra la sua vecchia insegnante che gli parla di ricordi, di amore, del suicidio di suo padre e di quello della madre di lui. I due stanno guardando una ragazza sugli scogli. Ad un tratto questa si getta in mare. Il ragazzo riesce a salvarla e dopo essere tornato alla propria auto, dà uno sguardo al fucile che aveva preparato per sé e decide di lasciar stare: è tempo di vivere. Opera dolorosa, di essenzialità feroce, che sembra quasi un massima esposta per immagini. Se di frequente nel cinema italiano dell’ultimo decennio siamo stati abituati ad odiosi spleen piccolo-borghesi, Onde si pone agli antipodi di tale tendenza e presenta un percorso di crescita, di emancipazione dal narcisismo depressivo di chi fa del proprio disagio il centro del mondo, e ci parla della via di redenzione che sta nel tornare ad occuparsi degli altri. A chiudere le danze, ci pensa il noir di Julius Amedune, Prencipe. Per quanto riguarda mezzi produttivi: idem di Red Road. Cadenze alla Nolan per questo corto, stilisticamente asciutto e di perfetta fattura. Non privo di difetti a livello narrativo, Prencipe riesce ad alternare momenti adrenalinici ed altri più malinconici, nel tentativo di disegnare un nuovo tipo di antieroe di colore, travolto dagli eventi, che pensa soltanto a tornare a casa dalla famiglia. Anche questo, certamente preparatorio in vista di un lungo.

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