“Ariran, Ariran, Ariryo” è il canto disperato che rompe il silenzio dell’esilio volontario di Kim-Ki Duk, pronto a mettersi dolorosamente a nudo in una sorta di autobiografia artistica e spirituale, che sembra gettare uno spiraglio di luce sugli ultimi tre anni di vita del maestro indiscusso del cinema Coreano contemporaneo, allontanatosi dal set a seguito di un incidente (risoltosi poi senza conseguenze) sul set di Dream. Nello sconcertante Arirang, presentato il 12 maggio a Cannes (Un Certain Regard), Kim-Ki Duk interroga se stesso, il proprio doppio e la propria ombra, lasciando che la macchina da presa si muova incessantemente sul suo volto stanco e sui capelli arruffati, incrociando locandine, vecchi disegni e premi di Festival ormai lontani. Ogni filtro sembra annullato in un documentario-confessione in cui il cinema si sovrappone alla vita, e il regista sceglie la macchina da presa e il pubblico come unico possibile custode di un mosaico che prende forma a poco a poco, disfacendosi e ricomponendosi ogni volta, oscillando fra eccessi verbali e rinuncia ad ogni tentativo di spiegazione. Lontano da ogni forma di civiltà, il regista vive in una casa fra i boschi, dorme in una tenda piantata in salotto, costruendo piccoli oggetti e rimuginando senza sosta su un passato che sembra oscurato da un’irrimediabile lontananza: alla propria coscienza che lo incita a riprendere il controllo di un’esistenza allo sbando, il regista manifesta una dolorosa impotenza, che lo costringe a lottare contro una serie di fantasmi che sembrerebbero impedirgli di tornare sul set e, quindi, di tornare a vivere. Che si tratti di un doloroso evento del passato, del tradimento degli amici di un tempo o della pressione del mondo esterno, il regista sembra soggiogato da un’invincibile pressione, che si traduce nell’occlusività delle mura in cui si è imposto di sopravvivere, separato da un diaframma invisibile dagli sconfinati spazi esterni. Il resoconto di un’esistenza sopportata con crescente disagio fa da perno ad una riflessione sul ruolo del cinema, sul significato della nostra esistenza e sul senso della morte, che si insinua silenziosamente, contaminando ogni altro pensiero e concretizzandosi negli oggetti in cui la macchina da presa si impiglia di continuo (le lische di pesce, gli ortaggi avariati, la pistola, e, forse, quei poster appesi alle pareti, che imprigionano in un’eterna immobilità le immagini dei film precedenti). Alla fine, tuttavia, non tutto ci viene svelato e, come proprio i film di Kim Ki Duk ci hanno più volte mostrato, la realtà trascolora sulla soglia di realtà e finzione, dove ogni certezza (colpi di pistola compresi) finisce per perdersi.