A due anni dal controverso Antichrist (N.d.r recensito da questa parte su Indie-eye.it) Lars von Trier estremizza il sentimento romantico della fine dei tempi nell’apocalittico Melancholia, rappresentazione raggelata degli ultimi giorni dell’umanità che sembra segnare, anche per l’uso non indifferente degli effetti ottici, il definitivo tradimento delle regole di Dogma. Nel film del regista danese, presentato in concorso al Festival di Cannes, l’ineluttabilità della catastrofe si palesa fin dal prologo sfolgorante e immagignifico che, mescolando suggestioni pittoriche e artifici visivi, mostra una natura in rivolta e in disfacimento, fino al fatale impatto con l’asteroide Melancholia, in progressivo avvicinamento all’atmosfera terrestre e destinato ad entrare in rotta di collisione con il pianeta. Non c’è lotta e non c’è speranza nel film di von Trier, per cui la minaccia annunciata si trasforma nel pretesto per modulare il dispiegarsi di un sentimento d’inquietudine cosmica, che tocca gli esseri umani in quanto unici ospiti di un universo indifferente e diventa tangibile nello sguardo, più penetrante e acuto, delle figure femminili. Soltanto nel rituale, nella riproposizione acritica di schemi consolidati sembra possibile una qualche forma di sopravvivenza: “life is weak” sussurra Justine (Kirsten Dunst), che accetta per un istante di sottomettersi al dovere di essere felice nel giorno del suo matrimonio ma, assalita da un crescente sentimento di angoscia, si ribella all’inconsistenza di una cerimonia che, a poco a poco, si trasforma in una sorta di danza macabra. Mentre in cielo Malincholia rifulge di una luce rossastra e annuncia il suo arrivo, la ricerca di verità della sposa si volge nella consapevolezza dell’assenza complessiva di un senso e di un orientamento, e si arrende, con stanchezza, all’idea che soltanto il dubbio e l’angoscia possano riflettere la condizione dell’uomo sulla terra. Per lo sconcerto di sposo e invitati, Justine si ritrae definitivamente in un mondo in cui forme e convenzioni si sono ormai sfaldate e, nel vanificarsi di ogni altro sentimento, sopravvive soltanto una malinconia quieta. Cosi’, nella seconda parte del film, Justine, invasa da una spossatezza senza rimedio, sarà l’unica a non essere colpita dall’avvicinarsi dell’asteroide Melhancolia, mentre la sorella Claire (Charlotte Gainsbourg), tenacemente attaccata alla vita e agli affetti (al figlio curioso, al marito che cerca di blandirla), sarà preda di un terrore panico senza rimedio. Isolati da ogni altro contatto umano, in un’atmosfera di sospensione surreale che ricorda le pitture di Magritte (ma prelude all’affermazione dell’unica vera realtà, intesa come definitivo annullamento), le due sorelle e il figlio di Claire attenderanno la fine dandosi la mano, rinchiusi in quella “capanna magica” (simbolo della vanità del rituale) che Justine aveva costruito per fugare i timori del bambino. Destinato certamente a fare discutere, Melhancolia respinge lo spettatore con una messa in scena di glaciale nitore ma, una volta accettate le regole del gioco, offre una rappresentazione dell’indefinibile malessere umano che difficilmente lascerà indifferenti.