Il caos e la forma, la legge della natura e la legge della grazia, l’esplosione della vita e il mistero della morte in un fiume visivo e sonoro, che moltiplica immagini e suggestioni, lasciandoci ammaliati e ancora storditi. Approda oggi a Cannes, dopo una serie di innumerevoli ripensamenti in fase di montaggio, l’ultimo film del fantasmatico Terrence Malick, forse il più atteso della Croisette. Se molti si sono subito schierati, applaudendo o fischiando (altrettanto sonoramente) la pellicola, al termine della proiezione in una gremitissima salle Lumière, sembra poco saggio approdare ad una conclusione rapida di fronte ad un film che ha il sapore ambizioso della summa e mira ad una sintesi emozionale (e per nulla sistematica) di natura e storia, sondando gli abissi della coscienza umana ed esplorando le origini del nostro universo, procedendo per contrasti e assimilazioni, che addizionano senza soluzione di continuità gli elementi più disparati. Così la vicenda di umano dolore di una famiglia texana si mescola alle visioni immaginifiche di una natura dalla potenza straripante, grazie ad un montaggio che fonde con imprevedibile audacia piani temporali e ordini di grandezza differenti, il singolare e l’universale, il minuscolo e l’immenso, il procedere meccanico dell’evoluzione e la necessità di rivolgersi a un Dio, di gettare una scintilla di eternità che oltrepassi con un balzo la dimensione temporale in cui siamo confinati. Malick esaspera e tende fino all’estremo il suo senso estetico ed estatico di una natura epica e in perenne trasformazione, in cui tuttavia non cessano di vivere e di pulsare piccole e grandi vicissitudini private. Malgrado la suddivisione in quadri narrativo/visuali e l’accostamento di immagini cosi’ lontane, avvalendosi di effetti visuali inediti e di una trama finissima di musiche (tra cui i requiem di Tavenor, Preisner e Berlioz) e sconfinati silenzi, The tree of life ci restituisce la vivida percezione di un’indissolubile continuità cosmica. A sua volta la vicenda familiare degli O’Brien si frantuma in una molteplicità di piani temporali, con episodi che rivivono nella memoria fluida della madre e in quella rapsodica di Jack, il figlio scontroso divenuto architetto di successo che, nella prigione di vetro dei grattacieli di Huston, ricorda la casa dell’infanzia e ricerca una connessione atemporale con i legami perduti. I giochi dei piccoli O’Brien, l’amore dolcissimo di una madre (la grazia) e l’autorevolezza brutale di un padre (la natura), i dispetti e le punizioni, le cadute e le giravolte, le gioie inattese e il dolore senza ritorno per la morte di un fratello si mescolano alle immagini vorticose dell’evoluzione del cosmo, generando nello spettatore quel sentimento del sublime capace di contemplare rapimento e senso dell’orrore: l’esplosione primordiale e la formazione della terra, la comparsa della vita (rettili, anfibi, dinosauri) e la deflagrazione delle forze telluriche, e ancora oceani, vulcani, deserti e ghiacciai. Come annuncia la citazione iniziale dal libro di Giobbe, nell’ordine di una natura dalle origini antichissime si inscrive l’età dell’uomo, che reca inevitabilmente con sé quegli “eterni” interrogativi, cui solo una dimensione infinitamente più ampia sembra poter dare una giusta collocazione. E alla fine, ancora pieni di stupore e perplessità, di fronte ad un’opera che lascia dietro di sé infiniti germogli, sembra lecito sospendere, almeno per un istante, il giudizio sui frutti.