Home festival cannes 2011 Cannes 64 – Restless di Gus Van Sant (Usa, 2011)

Cannes 64 – Restless di Gus Van Sant (Usa, 2011)

E’ l’impalpabile confine fra la vita e la morte che Gus Van Sant attraversa di continuo, nel malinconico e autunnale Restless, che inaugura la sezione Un Certain Regard del 64 festival del cinema di Cannes. Accantonata la passione civile di Milk, lo sguardo errante del regista si inoltra nel terreno sempre incerto che congiunge amore, malattia e morte, tessendo con delicatezza e pudore le trame di due vite che si intrecciano e si toccano, appena prima di una fine che subito trascolora, perdendo la sua ineffabile durezza. Ancora una volta i protagonisti sono in qualche modo degli outsider, adolescenti naturalmente esclusi da un mondo estraneo, ma siamo ben lontani dalle atmosfere paranoiche e sospese delle pellicole precedenti: Enoch (Henry Hopper, figlio dell’indimenticato Dennis e vera sorpresa delle prime giornate del Festival), dopo aver perso i genitori in un incidente, lascia la scuola e trascorre i pomeriggi presenziando alle esequie di perfetti sconosciuti, fantasticando su una morte che spera imminente (memorabile l`inquadratura iniziale, con Enoch che tratteggia con un gessetto la sua sagoma-cadavere sul selciato, con un’ironia alla Harold e Maude). L`unico testimone dei suoi pensieri è un immaginario fantasma che indossa i panni di un kamikaze giapponese morto a Pearl Harbor, sorta di grillo parlante tutt’altro che disciplinato. Ad interrompere la funerea routine è l’incontro con Annabell (la deliziosa Mia Wasikowska), cui un cancro ha lasciato soltanto tre mesi di vita. Il timore e la ritrosia lasciano ben presto spazio alla curiosità e all’affetto, quando Enoch si mostra disponibile ad accompagnare Annabell nei suoi ultimi giorni mentre, a poco a poco, l’ossessione per la morte (propria e altrui) si volge in un viscerale attaccamento alla vita, nel canto di gioia che ogni mattina si intona al risveglio, nel calore di un abbraccio che scioglie i timori. Rischia molto Van Sant, ma vince (quasi) sempre quando ai risvolti lacrimosi di una “Love Story” qualunque, preferisce i toni agrodolci e misurati che dipingono l’evolversi di un’affinità elettiva, che si espande oltre la soglia arbitraria che disgiunge la vita dalla morte.

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