Per anni il regista iraniano Abbas Kiarostami (Palma d’Oro per “Il sapore della ciliegia”) ha lavorato sul progetto di un film ambientato in Giappone, che raccontasse di una corsa in taxi nella notte della Tokyo contemporanea. Questo il germe di “Like Someone in Love”, fra le pellicole più sfuggenti ed ellittiche del Concorso Cannense. Sulle note struggenti della canzone di Ella Fitzgerald, si consuma una vicenda che dura lo spazio di poche ore, la trasformazione di un rapporto nato per caso fra due individui apparentemente agli antipodi. Akiko (Rin Takanashi) è una studentessa di sociologia che si mantiene facendo la escort, all’insaputa del fidanzato Noriaki (Ryo Kase) che lavora come meccanico in un’officina. Una sera Akiko è fatta salire dal suo protettore su un taxi che la condurrà in una villetta fuori Tokyo, dove l’attende un anziano professore in pensione. Akiko si offre all’ottantenne Takashi (Tadashi Okuno), che le ha invece preparato una cena al lume di candela. Il giorno successivo, quando il professore, riaccompagnando Akiko all’università, farà la conoscenza di Noriaki, gli eventi prenderanno una piega inaspettata. Le menzogne e i silenzi di Akiko destabilizzano il triangolo che si crea fra i tre protagonisti, da una lato opponendo Noriaki e Takashi e, dall’altro, istituendo un legame di confidenza e fiducia fra la giovane escort e il vecchio professore. Con la consueta grazia, Kiarostami registra gli impercettibili mutamenti che attraversano gli esseri umani in condizioni che si discostano dalla routine quotidiana. Il percorso di Akiko nella notte di Tokyo comincia con una serie di bugie (alla nonna che la aspetta davanti alla statua della stazione; al fidanzato ignaro della sua doppia vita) e prosegue su un binario sul quale ben presto la ragazza non avrà più alcun controllo. Nonostante l’apparente disinvoltura, la donna – come nel cinema del compatriota Jafar Panahi – qui è una figura spaurita e volubile, succube del protettore, che la costringe a lavorare quando non vorrebbe, e al fidanzato, che vorrebbe sposarla per esercitare su di lei un assoluto controllo. L’affidarsi al professore, l’unica figura con la quale non si siano rivelati necessari i sotterfugi, appare un esito naturale. “Like someone in Love” si potrebbe dividere in quattro sezioni: un prologo, due parti complementari e una conclusione. Nel prologo Hakiko è seduta al tavolo di un club di Tokio, discute animatamente prima con il fidanzato al telefono e poi con il protettore, entrambi insensibili, per ragioni incompatibili, al desiderio della ragazza di essere lasciata sola. Inquadrato è soltanto un taglio della stanza, uno spazio buio e ristretto, dove si avvicendano gli interlocutori di Hakiko, fin dall’inizio soggetta alle decisioni altrui senza possibilità di replica. La parte successiva comincia con una corsa in taxi – un viaggio nella Tokyo dalle mille luci attraverso gli occhi confusi e assonnati di Hakiko – e si conclude con la cena mancata nella villetta fuori città del professore desideroso di compagnia. Nulla sappiamo del passato dei due protagonisti, impacciati compagni di una sera sbucati dall’ignoto. Nel frammento successivo compiamo il medesimo percorso, ma a ritroso: Takashi riaccompagna la ragazza in città, attraversando le strade della città illuminata dal sole, fino a passarla in consegna a un altro uomo, il fidanzato con cui dovrà incontrarsi per pranzo. Nel finale, quando tutti sembrano rientrare nella propria condizione abituale, una telefonata di Hakiko in lacrime spingerà il professore ad abbandonare di nuovo la sua casa. Kiarostami lascia nel non detto che cosa accada fra un passaggio e l’altro: Hakiko addormentata nel letto del professore e poi diligentemente seduta sul sedile della sua auto; Hakiko che saluta il professore per raggiungere il fidanzato e poi ferita e dolorante ai margini di una strada. L’indefinito sfumare della notte nel giorno diventa metafora del tradursi delle infinite variabili che plasmano le relazioni umane, travolgendo in un istante esistenze e sentimenti umani.