Location originali, assenza di ogni accompagnamento musicale, riprese in ordine cronologico, sceneggiatura limitata alla descrizione dettagliata di scene e personaggi, dialoghi affidati all’ispirazione degli interpreti. E’ il metodo di Ulrich Seidl, cineasta sui generis adorato da Werner Herzog, che applica il proprio modello di lavoro alla costruzione di un trittico ispirato al tema della ricerca della felicità, alle strade molteplici e differenti attraverso le quali gli individui inseguono il proprio paradiso personale. Ottanta ore complessive di girato, quattro anni di lavoro. Solo in una fase avanzata del processo di lavorazione, Seidl ha spezzato l’unità narrativa della trama, per realizzare tre film paralleli. La necessità e la fatica di trovare se stessi nell’altro unifica tematicamente le pellicole: la madre in viaggio in Kenya (“Paradise: Love”); la sorella, missionaria cattolica (“Paradise: Faith”); la figlia, adolescente sovrappeso che in in un campo estivo incontra il primo amore (“Paradise: Hope”). Sulla Croisette, il regista austriaco si presenta con il primo capitolo della trilogia, “Paradise: Love”, in concorso per la Palma D’Oro. Amore fa rima con illusione, autoinganno e solitudine per Teresa, cinquantatreenne in fuga dalla grigia mittelleuropa, dove lavora come assistente sociale, per una vacanza sulle coste keniote. Promesse di paradiso per donne abbruttite dalla vita. Dove i Beach Boys non sono soltanto un gruppo musicale, ma frotte di ragazzi sorridenti che offrono i propri corpi in cambio di soldi, Teresa abbandona le proprie inibizioni e, incoraggiata da una veterana va alla ricerca del proprio angolo di felicità. Diventa, nella terminologia evocativa dei kenyoti, una “sugar mama”, una donna che offre denaro e regali in cambio di carezze e attenzioni. Seidl costruisce un cinema a tinte forti e dai contrasti vivaci: la carne in disfacimento di Teresa e il fisico tonico di Munda, la fusione di bianco e di nero, l’opposizione accecante dei colori africani. Sono corpi mostrati, esibiti in ogni dettaglio, scrutati dalla macchina da presa e dal suo doppio, l’obiettivo della macchina fotografica della protagonista, che tenta vanamente di fermare il tempo, di bloccare nell’immagine le emozioni che trascolorano. “Paradise: Love” non vuole essere un’inchiesta su un fenomeno di prostituzione maschile assai diffuso, ma l’immersione nei turbamenti di una donna in bilico fra speranza e rassegnazione. Il peccato che condanna Teresa è la progressiva perdita di consapevolezza, il sogno di un amore nuovo con chi le promette dolcezza, l’affidarsi a chi sembra guardarla con occhi differenti. Tradita dal giovane Munga, Teresa si abbandonerà a passioni passeggere, goffi tentativi che rimarranno per lo più inespressi per l’incapacità fisica degli amanti di soddisfare i suoi desideri. Teresa non vuole fantocci, ma uomini da ammaestrare, cui insegnare ad amare. Il sogno si dissolve di fronte alla richiesta pressante di denaro da parte di amori mercenari. In una delle inquadrature iniziali, un stereotipato paradiso tropicale campeggia sulla parete di un autoscontro. Quasi un preludio della felicità di cartapesta che toccherà a Teresa, figurina errante sulla spiaggia, macchina impazzita alla ricerca di un orizzonte che si allontana inesorabilmente.