Lo aveva detto chiaramente Isabelle Huppert in conferenza stampa a Berlino 62, Mendoza ha lavorato con gli attori di Captive creando le condizioni per un set totalmente aperto all’imprevisto, poche informazioni e uno stato di allerta continuo hanno limitato gli aspetti più artificiosi legati alla preparazione e alla conoscenza reciproca, l’ambiente in cui gli ostaggi sono stati calati sin dal primo giorno di lavorazione del film doveva trasformarsi in un’esperienza diretta del caos.
Brillante Mendoza sceglie quindi di girare in sequenza in un modo che, sulla base del risultato, si avvicina molto alla scoperta progressiva delle Isole Luzon attraverso lo sguardo di Anita Linda, l’attrice Filippina interprete di Lola, il suo precedente film presentato a Venezia 66.
Ispirandosi ai fatti che nel 2001 coinvolsero il gruppo di separatisti musulmani di Abu Sayyaf nei sequestri di Dos Palmas vicino alle isole di Palawan, Mendoza trasforma l’esperienza della cattività descrivendola come condizione umana più ampia, riducendo la distanza tra terroristi e ostaggi e allargando progressivamente la prospettiva su un’idea di prigionia che coinvolge anche le regole della natura.
Girato fuori dal teatro originale degli eventi, Captive ne riproduce comunque il viaggio dalle isole di Basilian alla giungla che circonda la città di Lamitan, ambientando ancora una volta il percorso di tutta la troupe intorno a Luzon, con alcuni inserti girati nel giardino dello stesso Mendoza situato a Metro Manila e costruisce uno sguardo aperto sull’orrore in un continuo rovesciamento del punto di vista da cui libertà e morte hanno origine.
La natura è quella inafferrabile e potente del cinema Filippino degli ultimi anni, osservata come un mondo autoctono regolato da leggi necessarie, ma a differenza della relazione ambivalente e originaria che questa ha con gli individui nel cinema di Lav Diaz, è minacciata da una volontà di assorbimento e disintegrazione che si manifesta dall’esterno, con l’allusione ad una forma di schiavitù di proporzioni globali.
Agli attacchi aerei dell’esercito, visti dallo stesso Mendoza da una posizione non privilegiata posta all’altezza di serpenti e formiche e con l’occhio che si confonde con quello di ostaggi e carcerieri, si sovrappongono false soggettive che sorprendono gli attori in uno stato inerme.
C’è un bellissimo dolly che ha origine dalla stessa flora naturale e che trova la Huppert con un movimento diseguale, imperfetto, fino a confondersi con la vita brulicante della terra, dove l’unica riconciliazione tra natura e individui è l’incontro tra Therese (la Huppert) e il Sarimanok, volatile della tradizione musulmana che occupa lo spazio del mito e che Mendoza riproduce con un simulacro digitale.
Il cinema aptico di Mendoza, caratterizzato da una prossimità dell’occhio ai corpi e ai i rumori viene sottoposto ad una messa in abisso di quel movimento che riesce a manifestare la scoperta della meraviglia nel flusso di un orrore infinito: è la trasformazione di terroristi e ostaggi in semplici viandanti durante la sosta all’interno della scuola dove condividono il cibo, è quella contiguità tra vita e morte durante la sepoltura dei cadaveri che Mendoza filma con alcuni passaggi da togliere il fiato; le formiche sul corpo senza vita di Soledad, lo scontro sulla diversa percezione della morte.
E’ un cinema della crudeltà che tiene a distanza qualsiasi tentazione giudicante quello di Mendoza, proprio per questo con un movimento opposto ad uno sguardo di natura entomologica, si confonde con la sofferenza dei propri attori, rivelandone la vibrante partecipazione.
Lasciandosi andare ad una suggestione volutamente forzata, se la Huppert filmata da Haneke lotta per disinnescare il determinismo di un burattinaio crudele cercando di uscire dal quadro, quella osservata dall’occhio vitale del regista Filippino è sempre al centro; disintegrando i limiti dell’inquadratura è libera di inventare disperatamente il proprio film.