Provate a stare senza mani e senza piedi. Senza braccia, senza gambe, senza udito, senza poter parlare, con mezza faccia ustionata. Cosa sareste. Un tronco umano. Un bruco – caterpillar – che al massimo può strisciare per terra mangiando la polvere. Shigeko (Shinobu Terajima) si vede arrivare a casa un bruco dal fronte della seconda guerra sino-giapponese scoppiata nel 1940. È suo marito, Kyuzo Kurokawa, ex soldato ora congedato con tre medaglie di quarta classe e tutti gli onori del caso. I giornali parlano di lui, esemplare servitore dell’Impero, combattente modello, Dio della Guerra, eroe nazionale che solo sua moglie, e i suoi compaesani, possono vedere di persona. Eroe locale. Shigeko tenta di strangolarlo, quel bruco. Il nuovo film di Koji Wakamatsu comincia con immagini di repertorio virate al rosso su cui scorrono i titoli completi. Poi si alza una cortina arancione di fuoco sul prologo della storia, girato in bianco e nero. Una scena di stupro ambientata in Cina. Quando il focus si concentra su Kyuzo e signora il prologo si dimentica alla svelta, ma nell’ultimo segmento di film tornerà ossessivamente, per far quadrare i conti su un eroe mica tanto eroe. Ma non abbiamo detto una cosa importante del “bruco”: come l’Uomo Elefante John Merrick, la menomazione gli ha risparmiato i genitali, che gli tirano a meraviglia. È in questo modo – banchettando sul corpo di Shigeko – che l’uomo-non-uomo Kyuzo resta in vita e convince la moglie che ha ancora qualche cartuccia da sparare. Immaginatevi una Helena (di Boxing Helena) ninfomane, un’Anna dei miracoli che invece di urlare “acqua!” urla “scopami!” Il nostro bruco è fatto così.
“Il fronte domestico è l’ultima linea difensiva” ammonisce la radio del regime militarista del Sol Levante che Kyuzo incarna alla perfezione, cieco fan dell’imperatore (di cui tiene il ritratto accanto alla spada, alle medaglie all’articolo di giornale che parla di lui) nonché metafora vivente del Giappone prossimo a subire lo sgancio delle due bombe atomiche. In realtà, anche il fronte domestico ha la sua guerra, cominciata ben prima di quella mondiale. Kyuzo picchiava la moglie e l’accusava di essere sterile, e ora finalmente Shigeko può consumare la sua vendetta, portando in giro il marito – che non vuole mettere il naso fuori di casa – come un ricettacolo di attenzione, onore e favori culinari. Come le uova fresche che Kyuzo si becca in faccia dopo aver fatto disperare la moglie nella scena più toccante del film. La verità è che Kyuzo non è né un eroe né un Dio della Guerra. Della guerra è l’ultimo dei sottoprodotti, e in quanto tale il suo nuovo aspetto è una fedele riproduzione della sua interiorità. Wakamatsu ebbe l’idea di Caterpillar durante le riprese di United Red Army (2008): per capire questi giovinastri degli anni Sessanta e Settanta, pensò, bisogna mostrare com’erano i loro genitori, reduci (e complici) di una guerra devastante, assurda e inumana come tutte le guerre. Nel corso dei suoi scarsi novanta minuti (quasi la metà del film precedente), la pellicola tocca vette di intensità e di acume senza mai scadere nella mera freaxploitation. La prima apparizione di Kyuzo buca lo schermo esattamente come la sua uscita di scena, ciononostante Caterpillar non è un film sull’handicap. È un film sulla guerra e le sue conseguenze irreparabili. In questo senso, gli ultimi minuti sono anche fin troppo chiari ed eccedono in cifre, didascalie e materiale di repertorio. Dopo aver fatto “parlare” al meglio tutti i suoi personaggi – da Shigeko fino all’ineffabile scemo del villaggio – la pellicola si conclude con un inutile pistolotto a firma Wakamatsu. Ed è forse per questo motivo che nella sala gremita, a fine proiezione, non si è sentita una mano che fosse una sbattere contro l’altra. Un vero peccato, perché Caterpillar è una celluloid atrocity potente e sensata. Che a Herzog, presente in sala col suo sguardo da guru e un vestito nero pece, potrebbe essere piaciuta alquanto.