Dopo l’Orso d’oro a Berlino Cesare deve morire de I Fratelli Taviani arriva oggi in 40 sale italiane. Un caloroso applauso a conclusione della proiezione tenutasi durante la mattinata del 29 febbraio a Roma presso il cinema Nuovo Sacher, cui è seguita un’affollatissima e partecipata conferenza stampa che ha visto la presenza, oltre che dei due registi, di Nanni Moretti (distributore del film), di Grazia Volpi (produttrice), di due ex detenuti del carcere di Rebibbia (Salvatore Striano e Fabio Rizzuto) e del loro regista teatrale interno Fabio Cavalli.
Quale è stata la prima scintilla che vi ha fatto venire voglia di realizzare questo progetto?
Paolo Taviani: E’ stato il caso a giocare il suo ruolo. Una nostra cara amica ci telefonò dicendoci di essere stata poche sere prima a teatro e di aver pianto come non le succedeva da anni. Andammo in quel teatro, era il teatro del carcere di Rebibbia, sezione di Alta Sicurezza. Attraverso cancelli e inferriate arrivammo davanti a un palcoscenico, dove una ventina di detenuti, di cui alcuni ergastolani, stavano recitando la Divina Commedia. Ricordo un detenuto sui 40 anni che si rivolse a noi mentre raccontava le vicende di Paolo e Francesca facendoci partecipi del fatto che quell’impossibilità di amare espressa in poesia era la stessa che vivevano loro da tanti anni poiché lontani dalle loro donne. C’era in loro la forza drammatica della verità e anche la sapienza di attori dovuta sicuramente a qualità innate ma anche al lavoro costante del loro regista interno, Fabio Cavalli. Fu una grande emozione e sentimmo il bisogno di scoprire qualcosa in più di quel mondo e capire con un film come la bellezza delle loro rappresentazioni potesse prendere vita da quelle celle, da quell’isolamento. Proponemmo a Fabio e ai detenuti di realizzare insieme il ‘Giulio Cesare’ di Shakespeare e loro si mostrarono da subito entusiasti del progetto.
Perché proprio questa opera di Shakespeare?
Vittorio Taviani: La nostra idea di proporre il ‘Giulio Cesare’ fu immediata. Nasceva da una necessità: gli uomini a cui facevamo la proposta rispondevano a un loro passato, lontano o recente, di colpe e delitti, di valori offesi, di rapporti umani spezzati. Bisognava contrapporgli un’opera di eguale forza, ma di segno opposto. Anche Shakespeare in questa storia italiana, porta in campo i grandi rapporti che legano o contrappongono gli uomini, l’amicizia e il tradimento, il potere e la libertà, il dubbio e il delitto. Due mondi che in qualche modo si rispecchiano.
Il film è stato girato nella sezione “fine pena mai” di Rebibbia…raccontateci l’esperienza del set e con gli attori-detenuti.
Paolo Taviani: Abbiamo girato lì per quattro settimane e ci siamo resi conto che lo stavamo facendo con la stessa spavalda incoscienza dei nostri primi film. La macchina da presa è entrata con grande libertà in ogni angolo del carcere eccetto quella dove sono isolati i collaboratori di giustizia, separati dagli altri detenuti, poiché non possono essere visti in faccia da nessuno. Un agente carcerario ci ha indicato dall’esterno le finestre dei pentiti:a contrasto con il brusio e il chiasso delle altre celle, là un silenzio tombale. Sospendevamo le riprese solo durante il passaggio dei detenuti degli altri bracci per l’ora d’aria, le docce, o quando alcuni nostri attori si allontanavano per i colloqui. Ne tornavano commossi o malinconici. Riprendevano il loro lavoro ma lo sguardo navigava lontano, avevano perso la selvaggia e tenera naturalezza nel recitare.
Vittorio Taviani: Il rapporto con loro è stato di complicità, come sempre succede quando si cerca una scheggia di verità attraverso un’opera. Come nel testo di Shakespeare, là dentro sono quasi tutti ‘uomini d’onore’ e nella loro quotidianità di detenuti non sono estranei a quei sentimenti: nei loro occhi, nel loro agire e reagire, portavano una memoria drammatica, un passato colpevole, che li ha resi bravi attori in maniera diversa dal solito. In loro, l’umanità si aggiunge al talento. E’ vero si sono macchiati di omicidi e colpe, ma sono e restano uomini. Quando è venuto il giorno di girare la sequenza dell’uccisione di Cesare, ai nostri attori con la daga in mano abbiamo chiesto di trovare in se stessi la forza omicida. Per un attimo avremmo voluto ritirare le parole appena dette. Invece i primi ad essere consapevoli della necessità di guardare in faccia la realtà erano loro. Per questo abbiamo voluto seguirli nei loro giorni e nelle loro notti troppo lunghe. Abbiamo voluto che il nostro comune lavoro si svolgesse nelle loro celle, dove si vive anche in cinque, nei corridoi, nei cubicoli dell’ora d’aria, nell’attesa di colloqui difficili.
Come è stato per voi, abituati alla pellicola, girare in digitale?
Vittorio Taviani: Non c’erano soldi per girare in pellicola per cui abbiamo girato in digitale con due macchine da presa. Si è rivelata un’arma a doppio taglio, in quanto da una parte ci ha permesso di girare tantissimo, in assoluta libertà e di ripetere più e più volte, dall’altra ci siamo ritrovati al montaggio con una enorme quantità di materiale da selezionare che ha allungato i tempi di postproduzione.
Quali difficoltà di produzione e distribuzione incontra un film di tale portata nell’attuale panorama cinematografico italiano?
Grazia Volpi: Ci tengo a ringraziare il Ministero, la Regione Lazio, il Comune e Rai Cinema per il loro contributo – seppur piccolo – senza il quale il film non sarebbe partito, e la Sacher di Nanni Moretti, poiché fino a novembre non avevamo trovato nessuno che volesse distribuirlo. In un’Italia in cui la commedia la fa da padrona (e dico questo senza voler demonizzare la commedia, in particolar modo un certo tipo di commedia) è sempre più difficile proporre film di questo genere, ma ci auguriamo che il riconoscimento internazionale possa aiutare la promozione e la diffusione di un certo tipo di cinema italiano.
Salvatore, tu hai già lavorato con Matteo Garrone in Gomorra e con Marco Risi in Fortapasc. In Cesare deve morire interpreti il personaggio di Bruto. Raccontaci di questa nuova e particolare esperienza con i fratelli Taviani.
Salvatore Striano: Appena ho saputo tramite Fabio (n.d.r. Cavalli) che i Taviani mi volevano per un loro film sul carcere ho accettato senza esitazione, anche se ciò rappresentava per me una duplice sfida sia attoriale che personale, poiché significava ritornare nello stesso carcere che mi aveva visto detenuto per 8 anni. La voglia di recitare, crescere e migliorarmi ha avuto la meglio su tutto anche se emotivamente non è stato facile tornare a rivestire i panni di un prigioniero, ripercorrere quei corridoi, rivedere i miei compagni e quelle mura. L’unica consolazione era la sera, quando uscivo e lasciavo che tutto il male scivolasse via da me.
Il film si conclude con una frase forte, emblematica, “Da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione”…
Fabio Cavalli: Questa frase la disse un giorno Cosimo Rega (ergastolano che ha recentemente pubblicato la sua autobiografia Sumino ‘o falco) e noi l’abbiamo rubata con il suo consenso per chiudere il film. Ciò che resterà per sempre di questa opera è la luce che i fratelli Taviani hanno gettato su un mondo che esiste e che sarebbe rimasto pressoché sconosciuto. Lavoro dal 2002 con i detenuti come co-responabile delle attività teatrali e regista e mai un giornalista si è interessato alle nostre attività (eccetto sporadiche incursioni di Blob). Io credo che Paolo e Vittorio abbiamo messo in luce quanto sia importante l’arte e la cultura all’interno delle carceri.
Salvatore Striano: Quella frase di Cosimo esprime la presa di coscienza di un uomo, un ergastolano che sta in galera da 20 anni, ex analfabeta che ha conosciuto l’arte e ora fa il capocomico e lo scrittore. Nel carcere di Rebibbia è possibile che ciò accada poiché si dà ai detenuti la possibilità di conoscere l’arte, di lavorare e fare attività che li facciano sentire ancora uomini. In altre carceri, come per esempio quello di Reggio Calabria non c’è neppure un libro a disposizione dei detenuti e così quelli non possono far altro che parlare e pensare unicamente ai loro crimini. Il mio appello è di mandare i libri a Reggio Calabria e nelle altre carceri sprovviste.
Fabio Rizzuto: Nei miei anni in carcere grazie a Fabio e al Centro Studi Enrico Maria Salerno ho studiato recitazione e oggi continuo a lavorare come attore. Avere l’opportunità di recitare è stata per me una fortuna immensa, in questo modo nell’ora d’aria puoi parlare dei copioni, del teatro e del modo di recitare e non soltanto dei processi.