Si esce accecati dalla visione di Changeling, il film di Clint Eastwood presentato a Cannes 2008, scritto da J. Michael Straczynski e ricostruito sulla base di un oscuro fatto di cronaca avvenuto a Los Angeles alla fine degli anni 20 di cui era sopravvissuta una notevole collezione documentale; è l’immagine stratificata di un cinema totale in grado di mettere insieme ottanta anni di idee, compreso quelle più genuinamente Eastwoodiane, senza sfiorare neanche per un attimo l’accumulo e puntando all’invisibile, fino a quel grado zero dello sguardo che riassorbe completamente i colori e fissa l’inquadratura finale su di un piano che risale all’origine del cinema stesso.
L’oscillazione tra la struttura classica e il suo sabotaggio attraversa tutta la filmografia del cineasta Statunitense, quasi sempre in transito tra astrazione e lirismo, ma sorprendentemente aerea e impercettibile almeno da A Perfect World in poi. Changeling è probabilmente uno dei film di Eastwood più vicino all’idea del sublime e per contrasto una delle sue realizzazioni più estreme e sperimentali; il secondo aspetto lo si percepisce in una sinestesia perturbante che mette insieme una visione vivida dei colori urbani ricreati dall’illuminazione di Tom Stern e l’intrusione di elementi CGI soprattutto nelle panoramiche più ampie; Hawks, l’espressionismo che entra nel corpo ibrido della preistoria Noir, il cinema Americano degli anni ’70 nella terribile ambientazione all’interno del manicomio, lo scontro ideologico tra individuo e potere che è di tutto il cinema di Eastwood, penetrano un tessuto visivo contemporaneo e piuttosto di farsi citazioni o brandelli di un archeologia nostalgica e inutilizzabile, diventano sottili, intercapedini invisibili.
Se dal cinema classico Eastwood prende quella impercettibilità del punto di vista che invece di negarlo lo nasconde semplicemente tra le pieghe del montaggio, sono quelle cellule prolettiche collocate come numerosi anti-climax che riavvolgono il film su se stesso una, due, tre, infinite volte, mutandone il senso e rendendo instabile la posizione dell’osservatore. E’ sorprendente in questo senso come si venga a creare una coesione difficilmente decriptabile tra elementi visionari e struttura narrativa, dove il racconto segue questo slittamento continuo del punto di vista in una dinamica morale che rintraccia le radici del male compromesse con quelle del bene, in seno allo sviluppo della società democratica; nelle immagini di Eastwood, più che nei dialoghi, questi quasi sempre in collisione con la materia visiva grazie a bellissimi e strategici motti di spirito, il male e l’illuminazione attraversano tutti i personaggi tanto da offrire un’ennesima, lacerante rappresentazione sull’ambiguità dell’infanzia.
Chi da molto tempo si diverte a tirar fuori dal cilindro la tragedia classica come uno degli elementi da cui il nostro attingerebbe (Midnight in the garden of good and Evil, Mystic River, Million Dollar Baby e certamente Changeling) non fa i conti con il cinema moderno, il rovesciamento di tutte le escatologie (anche visive) che è alla base del cinema di Eastwood. L’antiproibizionismo di Eastwood e il rifiuto delle regole che limitano l’autodeterminazione dell’individuo, oltre ad avere una forza politica che rendono Changeling quasi più attuale e dolorosamente “nero” di Million Dollar Baby, sembrano distillare l’immagine già atea di Bresson (da una vecchia e illuminante definizione che rubo a Giorgio Tinazzi) in una visione antimetafisica che si scaglia letteralmente contro la parola e cancella la presenza di dio nella rappresentazione materiale di oggetti e movimenti.
Il cinema impalpabile di Eastwood è anche un cinema dell’assenza e del vuoto; Angelina Jolie interpreta un personaggio posseduto dall’invisibile nel tentativo di ricostruirsi una fede personale nonostante le istituzioni le impediscano di vedere; nel confronto con l’assassino dei “Wineville Chicken Murders” che precede la sua esecuzione, viene chiusa in cella e separata dal serial killer per ragioni di sicurezza, è una delle sequenze più nude, surreali e semplicemente ambigue di tutto il cinema di Eastwood; in una sola immagine viene stratificata un’intera possibilità di significati, che di li a poco saranno riverberati nella lunga sequenza dell’esecuzione, troppo ricca di dettagli e minimi movimenti per essere concretamente descritta, tutta giocata sul passaggio impercettibile tra pietà e orrore, perdono e vendetta.
Changeling è una di quelle rare esperienze dell’occhio che riesce a individuare il confine tra visibile e invisibile penetrando il corpo storico del cinema e uscendone limpida e indenne da metavisioni con la puzza del reperto.