Una donna veglia un uomo in una stanza spoglia, gli parla ma lui non reagisce: ha gli occhi spalancati nel vuoto. È in coma. Ha una pallottola conficcata nella nuca. Un foro perfetto, indolore, il centro devastato e silenzioso di una dubbia coscienza. La stanza è quieta come l’occhio di un ciclone: oltre le finestre c’è la guerra civile, colpi di artiglieria leggera o pesante, a seconda dell’ora; oltre le mura del cortile una figura indistinta, coperta da un burka, si muove svelta sotto il tiro di proiettili vaganti. La donna nella stanza accorda la sua voce al respiro ritmico dell’uomo. Prima prega, poi smette e comincia a parlare. Parla di sé, per la prima volta, a suo marito. La litania del nome di Dio si scioglie in una confidenza e il segreto condiviso presuppone la speranza in un accoglimento partecipe. Secondo un’antica leggenda persiana, esiste una pietra magica che assorbe i segreti e i dolori di chi parla, fino a esplodere e liberare la persona dal peso del silenzio. Syngué Sabour (“pietra di pazienza“) è il suo nome. Come pietra paziente è, oltre al titolo del film, anche l’uomo per la donna che parla.
Tratto dal romanzo premio Goncourt 2008, tradotto con tatto e perizia da Yasmina Melaouah per Einaudi, il film è distribuito da Parthénos (la stessa di C’era una volta in Anatolia). Atiq Rahimi, alla sua seconda regia dopo Terra e cenere (2004), firma la sceneggiatura insieme a Jean-Claude Carrière, sensibile alle tematiche mediorientali (sua moglie l’iraniana Nahal Tajadod è l’autrice di About Elly). Recitata in lingua dari (persiano), questa storia è però la prima che Rahimi ha scritto in francese, lingua altra per esprimere l’alterità femminile. Il racconto è ispirato alla vicenda della poetessa afghana Nadia Anjuman trucidata dal marito, poi caduto in coma. Di qui nasce la storia. Dal punto di vista del marito. Ma presto emerge la voce della donna e Rahimi la segue, in ascolto. La voce che intesse il racconto filmico di questa moderna Shahrazād è quella di Golshifteh Farahani (Nessuna verità, About Elly di Asghar Farhadi , Pollo alle prugne, fino all’ultimo Just like a Woman in sala in questi giorni), attrice iraniana bandita dal suo paese, che ha insistito molto per ottenere il ruolo, confidando al regista – quasi in una concatenazione di liberatorie confessioni – la sua difficile esperienza di giovane adolescente in patria: come la protagonista di Osama di Siddiq Barmak (2003), si travestiva da maschio per superare i divieti imposti alle ragazze. Il suo volto naturale, libero da orpelli, acquista sullo schermo un’intensità inedita e la voce pastosa e quasi sussurrata della sua interpretazione si perde un po’ nella versione italiana, suggerita in parte dalle labbra quasi immobili.
Liberare le parole vietate, relegate alle confidenze tra donne, in un monologo che aspira al dialogo presuppone prima di tutto il silenzio e poi l’ascolto degli uomini che, malgrado le prerogative di una società patriarcale e proprio a causa della retriva maschera che essa impone, sono imprigionati in una identità fittizia che vieta l’espressione autentica dei loro desideri e delle loro vulnerabilità. Il marito (Hamidreza Javdan) non tollera le parole (è stato ferito alla testa per aver reagito a un insulto). Di qui nasce la violenza come sfogo della frustrazione. E il coma esemplifica la rigidità, l’inamovibilità, lo stallo della personalità maschile. Così la donna spera che il suo discorso lo scuota e lo cambi: “rispetterai i miei segreti e io rispetterò il tuo corpo … quando è difficile essere donna diventa difficile anche essere uomo.” Un balbuziente si esprime meglio di un uomo chiuso nel silenzio: l’antagonista è un giovane (Massi Mrowat) che impara ad ascoltare la donna e a dialogare fino a confidarle le violenze a sua volta subite. La donna cede quando l’uomo la supplica balbettando di ascoltarlo: non la vuole possedere e, senza sottrarsi al suo primo fallimento sessuale, torna a conquistarsi il suo spazio di amore.
Ambientato in una città (Kabul) suggerita soltanto da alcune scene in esterno, il film si svolge prevalentemente in ambienti chiusi, tra muri e cortili. Una pesante tenda, con motivi di uccelli migratori congelati sul tessuto mentre spiccano il volo, suggerisce la stasi della condizione; un ragno tesse la tela letale con cui paralizza la sua vittima e le mosche torturano il corpo inerme dell’uomo. La stanza, buia e soffocante nel romanzo, è nel film permeabile ed esposta ai pericoli esterni (due ampie finestre dai vetri infranti, ombre dall’esterno dietro le tende, detriti del bombardamento sul pavimento), così da evocare un corpo vulnerabile e violabile. Sembra costante in Rahimi l’idea che il trauma provocato dalla violenza devasta i luoghi, ma soprattutto gli uomini e li intacca nella percezione e nell’espressione: la sordità del bimbo di Terra e cenere, qui il coma e la balbuzie, fino alla più recente afonia dell’omicida di Maledetto Dostoevskij (l’ultimo romanzo del 2012).
Attraverso il racconto del corpo si fa strada la voce della donna: segno indelebile di un’antica rivolta contro il padre è una piccola cicatrice che nasconde tra la tempia e l’occhio. Nel racconto che fa del sesso e del sangue si apre la lotta tra Eros e Thanatos, il principio di autoconservazione femminile e quello maschile di distruzione (“Chi non sa fare l’amore fa la guerra”). Per la donna il sangue è una difesa (il mestruo per ingannare gli uomini, la ferita autoindotta e poi inferta dal pugnale). Nella grammatica maschile, il sangue puro dell’onore e quello impuro del mestruo confluiscono in quello della deflorazione: “Il piacere dell’uomo è vedere uscire il sangue squarciando il velo della virtù”. Il corpo femminile suggerisce un radicale sovvertimento del comportamento maschile: il consiglio che lei dà al giovane è di “scopare con la lingua e parlare con l’uccello”. Ovvio quindi che l’impotenza maschile (il marito è impotente, il padre della donna accarezza lascivamente le sue quaglie) sia sintomatico dell’incapacità di amare. Mentre dall’ostracismo sociale della sterilità femminile (presunta nel caso della protagonista o reale nel caso della zia) si apre una strada per l’emancipazione. Il corpo è occultato socialmente dal burka in quanto eversivo e pericoloso. E infatti la protagonista non è rappresentata come vittima, ma ha forza di carattere e si apre un varco di autodeterminazione, fino alla scena finale in cui si guarda allo specchio e si tinge le labbra di rosso. Per difendersi dal tentato stupro di un miliziano, la donna finge di essere una prostituta, riuscendo a evitare l’abuso. Come sentenzia la zia (Hassina Burgan), che lavora in un bordello, scopando una puttana non se ne domina il corpo. E tutto ciò perché alla base del rapporto c’è un accordo di scambio consenziente che nega la subordinazione coercitiva; ulteriore sottolineatura della pulsione aggressiva-distruttiva che intacca irreparabilmente la sessualità maschile.
Oltre la barriera dei valori morali delle diverse culture, sembrerebbe quasi che Carrière, a distanza di molti anni, abbia voluto riprendere la storia di Belle de jour dal suo finale, con la moglie-prostituta che assiste il marito in coma. Un’ideale prosecuzione dell’indagine sull’identità femminile: dal corpo autonegato della borghesia occidentale, a quello negato dell’integralismo orientale. La menzogna della Séverine di Buñuel, chiusa nelle sue allucinazioni, è una strada interrotta in cui invece la donna di Rahimi crea un varco, attraverso le parole. Così è anche il racconto coranico di Khadija, “colei che avrebbe potuto essere un Profeta”, la moglie di Maometto che fuga in lui la paura allucinatoria. Per questo nel finale la donna esclamerà: “sono diventata un Profeta, ho compiuto il miracolo”, il miracolo di riportare l’uomo in vita con la verità. Sebbene le conseguenze saranno tutt’altro che positive.
Girata prevalentemente con cinepresa a mano, sensibile all’ambiente, ai rumori e alle deflagrazioni, fluttuante e continua, la storia è scandita dalla musica minimalista di Max Richter (tra i numerosi titoli, Valzer con Bashir, Perfect Sense, La bicicletta verde e il recentissimo La religieuse) che ne sottolinea solo i passaggi essenziali. La voce è sempre diegetica, il soliloquio non si fa mai monologo e presuppone sempre la presenza di un ascoltatore. Al punto che i pochi dialoghi mancano di altrettanta intensità, fungendo spesso da espedienti funzionali. Non è tanto lo spazio recitativo affidato alla protagonista e tantomeno la rarefazione essenziale e quasi archetipica degli elementi ambientali a non convincere appieno, quanto piuttosto un uso dell’inquadratura un po’ tiepido e meno efficace del film precedente: la prevalenza del piano medio sembra finalizzato a includere sempre i due personaggi, quasi a sottolinearne la relazione di mancato dialogo, ma ciò a discapito di un uso più calibrato del dettaglio e del primissimo piano che avrebbe creato una maggiore tensione, seguendo i movimenti emotivi della donna con maggiore efficacia e sottolineandone in maniera più incisiva la corporeità.
Quanto al montaggio, le dissolvenze su bianco del precedente film (un accecante annichilimento di luoghi e persone), diventano qui dissolvenze su nero (squarcio violento da un luogo chiuso alla luce). Ma alcuni inserti didascalici indeboliscono la percezione claustrofobica del testo originario. Quando la mdp segue la donna avventurarsi oltre il cortile di casa, le scene non aggiungono nulla alla rappresentazione del contesto (non basta una scena davanti al bancone di una farmacia o nell’anticamera di un bordello per raccontare un ambiente). Altrettanto inefficaci sono le cartoline etnografiche dei due flashback (le nozze con lo schermo inondato da una ballerina in costume tipico, le due scene di battaglia delle quaglie). Forse una scelta più radicale, in direzione di un’essenzialità da Kammerspiel quasi teatrale, o al contrario una riscrittura più radicale della trasposizione filmica, avrebbe preservato meglio l’intensità della versione letteraria.