Molti, i film nipponici che nell’ultimo decennio hanno cercato d’illustrare l’appiattimento affettivo e la lacerazione psicologica, di cui pare siano preda i giovani dell’odierno Giappone. E visti gli scenari dipanati da queste pellicole, non c’è affatto da stare allegri. Da Blue Spring di Toyoda fino a Noriko’s Dinner Table di Sono, le vite dei teenager vanno a braccetto con la paranoia e l’istinto omicida (e suicida). Anche Nakashima decide dunque di accostarsi al tema, abbandonando le sgargianti tessiture pop dei suoi film precedenti (Kamikaze Girls, Memories of Matsuko). In seguito alla perdita della figlia per mano di due suoi allievi sociopatici, la professoressa Moriguchi progetta una vendetta spietata, dai forti connotati moralizzanti, in chiara polemica con le misure deresponsabilizzanti delle leggi minorili. Una gioventù, quella narrata, che ricorda i caratteri della Generazione Q, un modello sociologico teorizzato dallo studioso Falko Blask, secondo il quale, i ragazzi di questa categoria sarebbero sostanzialmente privi di risonanze emotive rispetto al contesto che li circonda, e pur avendo una vaga idea di cosa sia il bene e il male, non rinuncerebbero a prodigarsi in atti cruenti, incapaci di stabilire il giusto valore della vita, propria ed altrui. Nessuna particolare tragedia alle spalle, nessuna presa di posizione ideologica, si fa tutto così, tanto per fare. Perciò, “se l’esistenza diventa uno stupido scherzo, tanto vale riderci sopra”. E la dinamica dello “scherzo” è appunto il leitmotiv che attraversa tutte le efferatezze di Confessions. Moriguchi stessa, risponde all’assurdità (di moventi ed atteggiamenti) degli assassini di sua figlia, con altrettanti comportamenti assurdi; la sua è una vendetta che si serve delle ambiguità dello scherzo. Il film terminerà proprio sulle (sue) parole: “ Stavo solo scherzando”. Bisogna ammettere che vi è una buona dose di programmaticità nello sviluppo di tale argomento, che salta agli occhi soprattutto quando entrano in campo i personaggi adulti, ma tutto ciò non pregiudica il risultato finale che trae comunque la sua forza da un altro aspetto importante. Più che preoccuparsi di dire qualcosa di nuovo sul tema, Il regista cerca un punto di convergenza tra la sua ipertrofia stilistica e le modalità dell’immaginario delle nuove generazioni, ben consapevole che una puntigliosa ed asciutta fenomenologia sociologica mal si adatterebbe alla sua attuale ricerca visiva. Fratture sintattiche, eterogenia delle figure estetiche, ritmo sincopato, colonna sonora onnipresente – che comprende la crepuscolare Last Flower dei Radiohead – diventano il filtro del disorientamento esistenziale, del disordine di pensieri della gioventù contemporanea. A dare coerenza all’impasto: una fotografia dai colori lividi ed un clima funereo soffocante. Se da un lato permane lo spauracchio di un cinema che rischia d’essere divorato dalle immagini – esubero di sequenze poetizzanti slegate dal contesto – dall’altro emerge una capacità di cristallizzare l’attimo – i ralenti sono la croce e delizia del film! – davvero non comune, a cui si aggiungono degli squarci visionari assolutamente superlativi come la sequenza a ritroso nel finale. Nonostante tutto, il maggior controllo formale e la regia più consapevole, sono senza ombra di dubbio gli elementi che rendono Confessions il lavoro finora più convincente di Nakashima, nonché buoni auspici per il futuro, nella speranza di vedere un film che ami lo stile tanto quanto la materia narrata. Premiato con quattro Japanese Academy Award (tra cui miglior film, regia, sceneggiatura) e nominato agli Oscar come miglior film straniero.