E’ da parecchio tempo che non si vede un esordio come quello di Alice Rohrwacher. Con Corpo Celeste la giovane regista dà vita ad un’opera di complessità straordinaria che spazia dalla solitudine dell’infanzia al perverso mutamento antropologico della penisola, per poi congiungersi al tema dei temi ovvero la perdita del sacro nella società moderna. Dopo aver vissuto per ben dieci anni in Svizzera, la tredicenne Marta torna a stabilirsi presso le desolate borgate calabresi insieme alla madre ed alla sorella. Prossima ormai al sacramento della cresima, viene da subito coinvolta dalle istituzioni religiose del luogo che la preparano al rito attraverso una girandola di grottesche attività catechistiche figlie dei format televisivi. A casa non va granché meglio: a parte alcuni momenti di tenerezza con la madre, a farla da padrone è l’isteria della sorella. Per Jung il cattivo gusto delle facciate delle chiese moderne era l’esempio lampante del degrado del senso del sacro nella contemporaneità; analogamente la Rohrwacher ci porta in un’Italia dove le tradizioni religiose arcaiche con le loro pratiche idolatriche sono ormai totalmente deviate dai modelli del consumismo. Questo triste scenario culturale è filtrato dallo sguardo “incontaminato “ della piccola protagonista; una scelta registica che permette di evitare ogni discorso retorico, presentando i fatti in modo puro e semplice, senza pregiudizio alcuno. Silente osservatrice del suo ambiente sociale, Marta è emblema della dimensione del “sentire, non essendo ancora in grado di elaborare razionalmente tutti gli accadimenti. Nella sua ansia di crescere – si pensi a quando ruba e poi indossa il reggiseno della sorella diciottenne – è contenuto anche il germe di una genuina ricerca del sacro, fatta di interrogativi tanto semplici quanto incommensurabili, di cura per i simboli come un Christus patiens impolverato, di sguardi in una stanza per vedere se c’è Dio nascosto in qualche angolo. Non la convincono le balorde strategie commerciali di Don Mario e della catechista, che per raccattare fedeli, propongono una “religiosità” a base di canzonette demenziali – su tutte: “Mi sintonizzo con Dio / è la frequenza giusta / mi sintonizzo proprio io / e lo faccio apposta / voglio scegliere Gesù / voglio scegliere Gesù – inguardabili crocifissi al neon e lezioni ispirate ai telequiz. Ecco allora che un aneddoto sulla “follia” del Cristo, raccontato da un burbero prete nei pressi di una chiesetta diroccata, diventa l’immagine speculare alla condizione di estraneità di Marta, rispetto al mondo culturale che la circonda. A precedere questa scoperta: la prima mestruazione della ragazzina. Forse anche la crescita è una Passione, dopotutto. Oltre a questo, la regista sembra dirci che è Cristo stesso a “fuggire” dai tutori del culto, come ben dimostra la splendida sequenza in cui il crocifisso cade in mare – quasi volesse purificarsi dallo schifo che lo attornia – mentre Don Mario – in apprensione per le telefonate dei politici per i quali raccoglie voti – lo sta trasportando in città. La cerimonia cresimale difatti avrà come protagonista assoluto proprio quello spazio vuoto sopra l’altare: un’assenza piuttosto eloquente. Nonostante l’itinerario tematico di Corpo Celeste sia molto articolato, la Rohrwacher non perde mai di vista il quadro generale e riesce ad andare al cuore di ogni situazione narrata, insinuandosi tra le pieghe più dolorose, con una sensibilità da scorticata che non può che stupire ed infine commuovere lo spettatore.