Con una presenza impalpabile, otto anni dopo One hour Photo, l’occhio di Mark Romanek costruisce ancora una volta un immaginario fatto di materia fotografica; e di quella seconda prova stimolante ma ancora troppo sbilanciata dalla parte di un’abile e vorticosa rilettura della sua videografia, rimane l’intima essenza di un processo cognitivo colto nel suo stadio transizionale, tra verità e falsificazione della memoria. L’adattamento dell’omonimo romanzo pubblicato nel 2005 da Kazuo Hishiguro elaborato da Romanek insieme ad Alex Garland (The Beach, Sunshine, 28 Giorni dopo) rispetta il tocco immateriale dello scrittore anglo-giapponese calando i ragazzi formatisi nel college di Hailsham in una versione quasi astratta della campagna Inglese, una patina fotografica iperreale che con un processo di desaturazione, l’utilizzo di una palette limitata e la quasi esclusione dei neri, come ha raccontato Romanek stesso in più di un’occasione, erige un inquietante spazio eterotopo, sospeso tra memoria collettiva e la nostalgia di un reale senza corpi ne oggetti. E’ in questo passaggio che la fantascienza di Romanek, nel perverso simulacro di un film dall’allure apparentemente “classica”, somiglia molto a quella di Chris Marker quando punta ossessivamente l’occhio oltre la finitezza dello sguardo fotografico. Never let me go toglie progressivamente il fiato in questa erosione continua a cui è sottoposta l’architettura del paesaggio, sottrazione percettiva che guida i gesti minimi di Kathy, Tommy e Ruth fino a renderli vicini e allo stesso tempo alieni da una relazione familiare con il mondo, spirale mnestica che per usare un’espressione di Barthes riferita alla fotografia, materializza nei paesaggi del film tutti “i predicati possibili di cui è costituito” il loro “essere”. La stessa scansione temporale che in un conto alla rovescia capovolto, mette in fila il 1967, il 1985 e il 1994 come le tappe di una condanna a morte, è in realtà un’ambigua riflessione sulla mortalità scaturita dal rovesciamento continuo tra il Soggetto e l’atto di “rimettere nel cuore”, movimento che per Romanek è un continuo congelare e liberare l’immagine attraverso la cura per i segni e i disegni di cui il film è disseminato, stessa attenzione per il dettaglio che possiede tutta la scrittura di Hishiguro e che nel romanzo ha il potere di connotare la persistenza dei ricordi come un oscillare continuo tra pura essenza e vuoto. Nel perigrinare alla ricerca della propria identità gli ex ragazzi di Hailsham percorrono spazi svuotati con un senso autistico di scollamento dal reale che ricorda l’emersione dei Dannati di Losey più che l’incedere minaccioso di quelli immaginati da Wolf Rilla; un modello probabilmente non casuale, se si pensa a quello stato ipnotico e transitorio che è capace di esprimere il volto di una straordinaria Carey Mulligan, sofferente Go betweener che rimane pericolosamente a metà tra i due mondi.
Courmayeur Noir in Festival – 2010 – Never let me go di Mark Romanek (Gb, 2010)
Never Let me go è il terzo film di Mark Romanek, a otto anni di distanza da One hour Photo, a Febbraio esce anche in Italia il film tratto dal romanzo di Kazuo Hishiguro, visto in anteprima al Courmayeur Noir in Festival 2010, la recensione in anteprima...