Già presentato all’ultima edizione di Cannes, prima della distribuzione in sala curata da Fandango, il nuovo film di Im-sang Soo passa per la selezione ufficiale del Courmayeur Noir in Festival 2010; remake più formale che sostanziale di un noto film realizzato nel 1960 da Kim Ki-young, The Housemaid traduce le dinamiche sociali del modello in una dimensione quasi Loseyana, una drammaturgia del desiderio che si serve dell’organizzazione rigorosissima dello spazio come dispositivo politico; idea che lo avvicina al Chan Wook Park di Cut senza invischiarsi nelle stesse macchinose diavolerie causali, trovando negli interni di un’abitazione alto borghese un territorio simbolico maggiormente permeabile. E’ il dissidio tra oggetti e corpi che interessa al regista de La moglie dell’avvocato, una relazione incendiaria tra la precisione chirurgica dello spazio e l’irriducibilità di Eun-yi, interpretata da una splendida Do-yeon Jeon, già indagata dal volo leggero di Lee Yon Ki nel suo ultimo My Dear Enemy. Eun-yi esplora un territorio alieno con curiosità sperimentale, un’affermazione dell’esistenza attraverso il tatto, l’olfatto, la vista; tanto che Im sang soo costruisce attorno al nucleo familiare di The Housemaid una tensione “nera” che ha il compito di mantenere alto il potenziale vojeuristico trasmutandolo improvvisamente in un cinema fortemente aptico, un’energia distruttiva che invece di risolvere la sospensione (o la suspence, se si preferisce) la alimenta nella sua eruzione sensoriale. C’è allora un contrasto finalmente percepibile e doloroso nell’ultimo film di Im sang soo, a mio avviso il suo migliore, ed è quello tra il taglio simmetrico del set e il movimento perverso che lo esplora; davvero non si comprende lo sdegno critico che ha stigmatizzato i momenti più significativi di liberazione da questo equilibrio come il solito “accumulo” melodrammatico in salsa Coreana, quando al contrario, l’approccio di Im – Sang soo alla “verosimiglianza” dello spazio teatrale è molto simile a quello operato da Cronemberg in uno dei suoi film più estremi e radicali nel mettere in relazione visibile e invisibile, ovvero M. Butterfly. In modo non immediatamente percepibile, il regista Coreano penetra l’intimità di una mutazione sociale attraverso la superficie tagliente degli ambienti e l’incongruenza di volti e corpi in trappola; l’unico modo per evadere da questo inferno dei segni è distruggerli, annientare se stessi e lo spazio che ci circonda con un suicidio incendiario che mandi in frantumi il set e riassorba quell’escatologia della vendetta in un’immagine di forza politica superiore.